I

Le certezze granitiche dei vecchi contadini sono inscalfibili. Le casse qua, i plateaux là, la carriola a destra, il trattore a sinistra. Parlano poco e solo di uva. L’è bona, no l’è mja bona, l’è ndrio, l’è massa madura. Non sono interessati ad altro fuori dal campo. L’orto, il vino, l’olio, le pesche, le ciliegie.

Si muovono all’insegna dell’utilità e della funzionalità, tutto ciò che fanno deve avere un senso ed un ordine pratico; possiedono delle conoscenze del territorio, con le sue peculiarità locali, estremamente affinate e finalizzate a ricavare il maggior profitto con il minor impiego di tempo ed energie.

Un’ammirazione profonda pervade l’astante nello scrutare un legame atavico con la terra, dove si nasce, si lavora e si muore. Giorni tutti uguali, ma sempre diversi in un ripetersi incessante di alternanza freddo caldo, pioggia sole. Un tempo anche la neve, ormai sempre meno. In fondo nella saggezza contadina, che non contempla altro fuori da sé, c’è la consapevolezza inconscia del cambiamento climatico, del riscaldamento globale e, perché no, della durezza di una vita “moderna”, sempre online, incollati alla sedia, senza sapere se fuori vien giù acqua, grandine o se il sole scotta la pelle.

La giornata tra le mura della cantina invece è diversa, più simile a quella che il progresso tecnico ha preparato per le nuove generazioni: solitaria, isolata, protetta. Qui lo charme del lavoro agricolo, con le sue innumerevoli contraddizioni e miserie, lascia spazio alla tristezza del chiuso e alla ripetitività che non è piacevole quanto quella dei campi; come se il fatto di compiere sempre le stesse azioni avesse un significato profondo solo en plein air e non tra i tavoli e l’aria condizionata di un edificio qualunque.

In fondo lo sappiamo e continuiamo a ripetercelo, le ragioni degli altri non hanno valore; forse avranno un fine, ma non sta a noi cercare di coglierlo, perché la realtà della terra supera qualsiasi altro tentativo di dare un senso all’esistenza, qualunque esso sia non merita l’attenzione del vecio bacán (vecchio contadino), non si sa ancora se per malcelata superbia o solo per profondo disinteresse, sano distacco dalle mondanità, dall’odiata città con le sue stravaganze, o dai giovani, sempre più strani e incomprensibili, forse anch’essi arroccati alle loro fragili certezze, in quella che sembra potersi connotare come una “nuova modernità”: volatile, inafferrabile, evanescente. Un agrodolce incontro-scontro tra realtà differenti alla luce del sole di settembre.

II

“La luna e i falò”
L’étranger
Voyage au bout de la nuit
“La nausea”
“Una questione privata”

Ogni giorno c’è un’ora dedicata alla letteratura. Si parte con un botta e risposta di titoli di romanzi o di autori e si continua cercando di dare un ordine ed un senso ad una discussione che non si svolge pacata attorno a un tavolo, ma disordinata, disturbata, distante tra un filare e l’altro. Le urla sulle prodezze di quello scrittore o sulle concezioni di quel pensatore si mischiano al silenzio di chi non perde tempo con la vuota retorica improduttiva e con quello di chi vorrebbe partecipare a modo suo, ma, non potendo, prova a far virare la chiacchiera su qualcosa di più elementare e rassicurante, magari prendendosi gioco di chi prova gusto a discettare sull’esistenzialismo di Camus o sul disagio di Dostoevskij e Houellebecq. In effetti non si tira fuori mai niente di leggero, pare il mito di Sisifo, una pietra da trascinare in cima alla montagna per poi rivederla cadere inesorabilmente; come le giornate in vigna, dove non si è mai abbastanza rapidi e organizzati per dirsi davvero contenti, pur senza la retorica dei parvenus incravattati del nuovo secolo.

A volte tra un Pavese ed un Fenoglio ci si taglia un dito cercando di cogliere un grappolo maturo dall’altra parte del filare. È sempre l’indice della mano opposta a quella con la forbice.

III

L’uva va tirata giù tutta, eccetto quella con le marciture. Si comincia dalla collina sopra gli ulivi, poi si andrà alla Grola. Qua ci sono mascherine e disinfettante, anche se nelle vigne non ne avrete bisogno. I vostri punti di riferimento sono Piero e Lello, sanno sempre tutto. Per il resto è facile, si impara rapidamente.

Il trattore del dopoguerra pieno di casse vuote sembra tossire tra le colline illuminate dal sole nascente. Non c’è umidità, non fa freddo, non fa caldo. Bisogna cominciare a tirar giù uva, il tempo corre, le otto-nove ore giornaliere sono poche: potrebbe piovere, grandinare o chissà.

Sui campi non si sa mai niente: un reticolo di nozioni implicite, battute e non detti scandisce la vita agreste. Tutti dovrebbero sempre sapere dove andare, cosa fare, come agire: se hanno passato il resto della loro vita tra scuole, uffici, università e grandi città sono colpevoli di continua mancata comprensione del contesto. Quel che conta è sapere se quel grappolo vale o no, se la carriola va nel terzo o quarto filare, se le forbici, anche dette “l’arma”, le hai sempre con te, o se sbadatamente te le dimentichi sotto un ulivo qualunque. Alcuni soffrono sotto il peso dei continui ordini, altri si godono l’atmosfera.

A qualcuno piace sapere se quella è cacca di cinghiale o di volpe, se domani pioverà, se quell’uva corvina è buona per l’Amarone o per il Ripasso. Forse dovrebbe piacere anche ad altri qualcosa di diverso e nuovo: è il fascino dell’alterità, ma per comprenderlo davvero occorre aver vissuto in diverse realtà e non è detto che sia accaduto a tutti.

IV

“Il mondo delle cliniche è molto meglio di quello degli uffici.”

Norberto lo guarda e scoppia in una risata disalienante. Conosce il soggetto, ne ha messo in luce eccessi e simpatie, ma di fronte a quella che sa essere una verità socialmente malcelata non può far altro che sghignazzare liberamente. Ride di sé, degli altri, delle assurde credenze che ci auto-imponiamo.

Mentre mangia il panino annuisce. Un soliloquio lo porta ai pensatori della scuola di Francoforte e alle patologie che ci hanno diagnosticato. Un mondo dove l’etica non solo non è la filosofia prima, come vorrebbe Lévinas, ma è completamente svuotato di valore tutto ciò che esula dalla “razionalità economica” delle imprese che vorrebbe inglobare l’intera dimensione dell’esistente nella sfera mercificata del marketing, della finanza, della compravendita. Eric Fromm chiude il quadro affermando che il conformismo acritico degli “alienati, strumentalizzati, robotizzati”, incapaci di provare conflitto, si denota come schizofrenia funzionale al sistema nel quale “i normali sono i più malati e i malati sono i più sani”.

E poi ci stupiamo di impazzire?
“Troppi libri, Norberto, troppi libri.”
“Bhe, Lebowski, gli sballati hanno perso. Ma ci rimane sempre Qualcuno volò sul nido del cuculo.”
Lebowski lo guarda e lancia una battuta delle sue, citando a braccio il film: “Mcmurphy, abbiamo il sospetto che lei sia qui per non lavorare. È così?”
Norberto si fa trovare preparato e ribatte: “Ma cosa vuole che faccia? Che mi metta a cagare sul pavimento?”
Lello li guarda silenziosamente. Forse lui è più tranquillo, meno contorto, più lineare nella sua confortante routine.

Lello lavora in questa azienda agricola da oltre un anno, viene a potare, concimare, trattare, vendemmiare, inscatolare, imbottigliare tutti i giorni. Prima faceva il muratore, a 60 anni si è scoperto contadino di professione, ma ha sempre lavorato tra orti, ulivi, ciliegi. Mentre mangia la solita pasta, riscaldata nell’abitacolo della macchina al sole, preparata dalla sua premurosa moglie guarda Norberto e gli dice: “Non pensare, te lo dico sempre, non pensare. Perdi tempo”.

V

Il trattore sale su per la collina balzando qua e là a causa delle pietre e dello sterrato sconnesso che va verso San Giorgio. Prima ci sono le pergole, poi i filari orizzontali, infine quelli verticali che entrano nel bosco. San Giorgio è chiamata “ingannapoltron”, perché quando sembra di essere arrivati manca ancora un bel pezzo di strada. Lo sa bene Norberto che ama andarci in bici.

San Giorgio ingannapoltron, pare una città ma l’è smacion.

Le nuvole sono arrivate troppo velocemente per darci il tempo di capire che sarebbe venuto giù un acquazzone. Fino a mezz’ora prima splendeva il sole e chiacchieravamo felici in maniche corte. Chi si godeva le chiacchiere in vigna, chi pensava al pomeriggio che avrebbe passato con la fidanzata, chi rimaneva impassibile di fronte a qualsiasi evento.

Nel cassone del trattore c’è Norberto, come sempre. Per ripararsi ha preso una cassa dell’uva e se l’è messa in testa. La usa come fosse un corsaro, ride e canta sotto l’improvvisata maschera. È in maglietta, forse deve farsi forza contro il freddo. Gli altri sono sparsi nei lunghissimi filari verticali che ricordano i ranch americani di Steinbeck. Indaffarati a tirare giù uva, ma soprattutto a capire come ripararsi in un posto dove non c’è alcun riparo. Cominciano a correre verso i filari orizzontali che danno a valle, mentre Lello e Norberto sul trattore sono in modalità “lepre”, quella veloce, utile a fuggire dalle intemperie.

C’è anche Giacomino con il suo immancabile cappello di paglia. A Norberto ricorda un vietcong, secondo Lello pare un gaucho argentino, lui sorride e non dice nulla. È un personaggio nuovo nella nostra storia, si è inserito nel gruppo un paio di settimane dopo l’inizio della raccolta.

VI

In bici su per la salita di Sant’Ambrogio di Valpolicella fatica, ma nelle giornate fredde è ripagato dal sollievo generato dalla sensazione di calore che lo pervade una volta raggiunto il pianoro. Poi attraversa il paese, supera la pizzeria, il bar dell’angolo, la pasticceria, la scuola, piena di bambini a quell’ora del mattino, e raggiunge il campanile. Di solito suona le otto mentre lui è ancora in strada, un’ultima volata forte lo spinge fino alla tenuta dove inizierà la sua giornata di lavoro. Anche oggi quattro minuti di ritardo, mannaggia però Norberto.

Gli altri sono già intenti a tirar giù uva. Con il maglione e il cappellino, la stagione cambia e nel campo te ne accorgi subito. Lebowski continua con i suoi interminabili aneddoti che portano sempre allo stesso punto di partenza, Giacomino assennato cerca di non perdere i ritmi frenetici di taglio dei grappoli imposti da Piero, Lello parte con il trattore con il suo fido aiutante nelle retrovie. Si inizia con un’attività che Norberto adora: il lancio delle casse nella vigna. Bisogna capire quante buttarne a seconda della quantità d’uva presente. A volte, tra una cassa e l’altra, si gettano un paio di secchi, utili per muoversi in agilità tra i filari.

Giacomino è un ragazzo mite, con dei muscoli grandi che probabilmente non userebbe mai contro nessuno, sviluppati più che altro per tenersi in forma. Cammina in maniera goffa e ha qualche tic. È molto preciso, conosce le regole e le norme del lavoro agricolo, si vede che è una persona affidabile, imparagonabile a Lebowski in questo. Gli piace parlare, ma senza gli eccessi altrui, esprime il proprio parere su tutto, ma senza le posizioni dure degli altri.

Prima di trovarsi a fare la vendemmia in Valpolicella ha vissuto un anno e mezzo a Londra. Là ha fatto di tutto: cameriere, impiegato, fattorino. Ma la sua passione sono i video e ne ha girati diversi di buon valore: video di viaggio, pubblicità, clip per canzoni, corti. Adesso deve capire come muoversi dopo il periodo di raccolta. Il passo dal mestiere temporaneo di operaio agricolo a ciò che verrà dopo non è scontato né semplice. Forse il giusto atteggiamento è quello di godersi il presente di questa avventura che può trasformarsi in esperienza umana arricchente se vissuta nella sua complessità.

O forse sono solo “deliri da umanisti”, come direbbe qualcuno.

VII

“Li vedi quelli? Cinghiali.”

Il terreno è sconnesso, irregolare, mosso, pieni di buchi: sono i cinghiali a renderlo tale con il loro muso sempre in cerca di radici, funghi, vermetti. Questi animali qui sono molto odiati perché ritenuti colpevoli di non rispettare i campi altrui, cibandosi di pietanze a loro non dovute. I contadini e gli imprenditori agricoli del luogo sarebbero disposti anche ad invitarli a cena, ma sotto regolare pagamento per i prodotti dell’orto consumati.

“I cinghiali non mangiano l’uva, ma bisogna ucciderli comunque.”

Maiali infami senza senso del pudore e della proprietà, esseri immondi da eliminare subito. Ma non siamo forse noi ad aver sballato tutti i ritmi della natura e ad aver contribuito anche a questo eccesso di cinghiali? Possiamo veramente prendercela con loro e ucciderli spietatamente?

“Sono giorni che cerchiamo di colpirli, ma je massa furbi e non si fanno trovare.”

Non si capisce perché ucciderli quando non mangiano l’uva e non fanno particolari danni nelle vigne. Qualcuno dice che secondo lui è sbagliato, ingiusto, codardo. La violenza gratuita sugli animali non appartiene alla sua logica e lo esterna. Il contesto purtroppo non gli permette molto spazio e deve retrocedere davanti al piedistallo dell’utilità, secondo la quale, nel dubbio, è sempre meglio eliminare l’innocente cinghiale, perché “non si sa mai”.

Lo stesso non avviene con i combustibili fossili, gli anticrittogamici, i diserbanti, le monoculture intensive.

VIII

La testa fatica a farsi spazio tra le casse d’uva impilate una sull’altra e i rami d’ulivo. Il terreno umido fa slittare il trattore, il cassone bagnato non invita il sedere di Norberto a sedercisi. Bisogna andare tra le marogne, nelle fratte, tra i rovi su per la collina dove i filari sono in pendenza e danno pochi frutti. Là li aspetta Piero, che si è guadagnato l’epiteto di supervisor, saltuariamente anche detto chief manager.

Piero, classe 1940, è il più anziano del gruppo. Ha sempre vissuto a Sant’Ambrogio, a pochi passi dall’azienda agricola. È un uomo asciutto, rapido, di poche parole. Per la sua età mostra un’agilità sopra la media, probabilmente è abituato a muoversi tra i campi da quando è nato. La sua disinvoltura diventa però un tormento per i colleghi meno esperti, pur se non si tratta certo di un mestiere che richiede speciali skills.

Ecco perché si è guadagnato l’epiteto di supervisor. Corre dietro agli altri, gli “dice su” in dialetto, “troppo lento, troppo distratto, nel filare sbagliato, con il secchio vuoto”. Giacomino soffre sotto i ritmi assurdi e insensati imposti dal chief manager, Lebowski, Lello e Norberto fanno comunella contro gli eccessi della catena di montaggio proposta e imposta.

Lello, essendo anche lui un vecio bacán, è in competizione con Piero e non accetta nessun ordine. A volte litigano, mentre i giovani astanti si godono scene a cui non avrebbero pensato di assistere. Altre volte si ritrovano nelle loro concezioni antiche, ormai superate da un mondo che vive altre emergenze rispetto a quelle che loro si ostinano a reputare tali.

Norberto si è inventato entrambi gli epiteti di Piero e prova gusto a spiazzarlo utilizzando termini aulici, parole inglesi, detti latini. Non accetta di essere ripreso per ogni idiozia, ma, per mantenere il conflitto su un piano diverso rispetto a quello proposto dal supervisor, cita Platone, Joyce, Baudelaire o Battiato, quando non si lascia andare ad un banale ubi maior minor cessat. Il suo tradimento non è semplicemente quello dell’arroganza dell’ignoranza, ma il continuo constatare, sia da parte di Piero che di Lello, l’annichilimento di qualsiasi coscienza di classe e di qualsiasi cultura popolare che possa esulare dallo scimmiottamento dei padroni, dall’asservimento ai superiori, dal vano e mesto desiderio di farsi un campo più grande del vicino di casa.

Aveva ragione Pasolini, la televisione e il consumismo hanno distrutto tutto. I pochi che hanno coscienza sono destinati a soffrire nella loro emarginata consapevolezza, considerata ormai un inutile fardello improduttivo dai più. Non resta che la sofferenza e il senso di vuoto e incomprensione, lo spleen baudelairiano a cui affidarsi in solitudine o con quei pochi amici che hanno capito il trucco senza crederci.

“Quello che per noi conta non conta.”

IX

“In tutto questo c’è anche il covid.”
“Da domani tutti con la mascherina nel campo”, risponde Lello.
“Se fanno un nuovo lockdown a novembre andrò a spaccare le vetrine dei supermercati per prendere vino e wisky” ribatte Lebowski.
“Per me una nuova chiusura si potrebbe anche fare, ma bisogna dare coperture sanitarie e sociali a tutti o non se ne fa niente. Ci vuole una riforma del welfare che superi le norme categoriali per garantire un reddito di base incondizionato”, afferma Norberto.
Il tema virale scuote gli animi e ognuno vuole dire la sua. Chi sbraita contro il governo, chi ha terrore del virus, chi lo nega, chi dice cosa si dovrebbe fare secondo lui.
“Te lo dico io, dopo la vendemmia partono i saccheggi. Sarò nella merda come tanti altri. Ma senza alcol non ci rimango. Piuttosto al gabbio”, incalza Lebowski.

Il caos globale innescato dal diffondersi della pandemia arriva ovunque, ma nei terreni della Valpolicella, a volte, ci si sente al riparo dalle difficoltà e dalle problematiche del nostro pianeta. In questo mondo piccolo piccolo, rassicurante nella sua semplicità, ci si può rifugiare per alcune ore al giorno, prima di tornare alle notizie, all’informazione, all’allarmismo funzionale al capitalismo tecnocratico. Tra una vigna e l’altra vige uno scambio di battute libero, spesso scollegato, a volte con un filo logico, di solito disturbato e intervallato. Ogni tanto ci si stanca di ripetere sempre le solite cose, di seguire gli stessi schemi che dopo un paio di settimane faticano ad apportare qualcosa di nuovo alla discussione, così si accende la radio e ci si affida alle chiacchiere altrui, in fondo non migliori di quelle dei contadini. E se proprio la radio delude ci si affida a qualche classico della musica italiana, oppure agli intramontabili gruppi inglesi e americani dei seventies o degli eighties.

Qualcuno propone Silvio Rodriguez, ma non viene ascoltato, altri Amanda Lear con successo. Si finisce con Guccini, considerato addirittura capace di far diventare il parón (il proprietario delle vigne) di sinistra.
Mio Dio che scandalo. Sarà forza la rivoluzione?
Non so, ma certamente “la bomba proletaria illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia.”

X

Non tutte le mattine hanno l’oro in bocca. A volte ci si alza con la luna storta e ci si chiede il perché di troppe cose per uscirne indenni. Così si arriva al lavoro con minor grinta rispetto al solito, meno propensi a parlare con i colleghi temporanei, con i propri pensieri in testa.

In questo gruppo disomogeneo la varietà è grande: età, situazione, provenienza. Lo spartiacque socio-culturale esiste e a volte tira fuori le unghie, ma di solito passa in secondo piano rispetto alla comunanza che ci caratterizza tutti. L’identità costruita in relazione è l’unica vera ed è ancora più importante nell’epoca della pubblicità selvaggia e del distanziamento sociale imposto che promuovono l’individualismo sfrenato. Conoscersi vuol dire comprendere gli altri, capire cosa pensano, stare insieme a loro.

“Non pensare, te l’ho detto tante volte, non pensare, perdi tempo” incalza Lello mentre vede Norberto pensieroso.
“Metti radio pico Lello.”
“Non attacchi tu?”
“Oggi sono fuori forma. Vorrei una vacanza da me stesso. Mi piacerebbe stare a casa a leggere e guardare film e poi la sera spegnermi come il robot di Guerre Stellari.”
“Eh caro mio, sei giovane, ne devi vedere ancora tante.”
È vero, pensavano tutti in silenzio. La vita è dura e il trucco è renderla leggera, fingere che sia un gioco, ridere delle cose più semplici. Il mestiere di vivere lo chiamava Pavese.
“Norberto, ma che ci faccio io con uno che non sa nemmeno chi è Céline?”
“Non essere categorico Lebowski. Umiltà, resilienza ai dettami della società e duro lavoro per cercare di fare qualche passo avanti.”
“Ma che passo avanti? Anche stasera andrò dal cinese a bere birre.”

XI

Sapienza?”
“Ah ti giri allora!” dice Lebowski.
“Ci mancherebbe.”

Anche Norberto aveva il suo soprannome. Lo canzonavano per il suo parlare aulico, spesso fuori contesto. Giacomino gli diceva che tirava fuori parole che non sentiva da tempo: disomogeneo, fruibile, coadiuvare e quant’altro. Norberto se ne rendeva conto sempre troppo tardi. Lebowski ridacchiava e diceva che almeno con lui si poteva parlare di letteratura e filosofia.

Norberto ama dare lezioni e tenere seminari addirittura nel campo. Gli piacciono quasi tutti gli argomenti; è curioso, vuole imparare, ma anche dire la sua. Il limite tra la normalità e la logorrea non è ben definito, tanto che lo si potrebbe chiamare “Radio Norberto”.

Sapienza ha vissuto in tutto il mondo prima di arrivare in Valpolicella. Di queste colline ama la semplicità e la natura, ma odia l’arretratezza del servilismo verso il padrone, l’ideologia imprenditoriale dove tutto si compra e tutto si vende pur di fare schei (soldi) e il pregiudizio nei confronti dei meridionali. Sarà che è cosmopolita, ma il razzismo sui terroni (sì, purtroppo li chiamano ancora così) proprio non lo può comprendere nel 2020, gli sembra di essere negli anni ’70.

Il supervisor corre come una freccia tra i filari senza curarsi di altro che della rapidità e della resa del suo lavoro. Si muove come fosse il parón del campo e forse nella corsa dissennata si dimentica della sua condizione di contadino e si sente più vicino ai possidenti che non ha mai veramente avuto il piacere, o il dispiacere, di conoscere. Piero si finge proprietario del latifondo, dà senso alla sua vita in una corsa irrazionale verso il nulla e se ne compiace. Odia chi perde tempo in qualcosa che lui giudica improduttivo, ossia qualsiasi attività, pensiero, azione che non abbia a che vedere con campi e fabbriche, principalmente vino e marmo, come si confà alla Valpolicella. Lo sguardo serio, le forbici tagliano senza pause, il guanto nero incalza chi si trova dall’altro lato del filare in una competizione scriteriata e annichilente.

Sapienza si difende con l’ironia: “Piero, anche oggi caffè con il plusvalore?”

XII

“La casa in collina”
“Uomini e topi”
“La vita agra”

Era ripreso il solito botta e risposta quotidiano, sempre nel suo mélange di evasione e ritorno alla realtà. Lebowski, come d’abitudine, cercava una bottiglia di birra tra i filari.

“L’ho portata questa mattina. La Peroni del cinese. Un euro e cinquanta. Prima costava un euro e dieci, ha aumentato il bastardo.”

“L’ho portata questa mattina. La Peroni del cinese. Un euro e cinquanta. Prima costava un euro e dieci, ha aumentato il bastardo.”
“E sai, con la scusa del covid”, dice Lello.
Norberto incalza: “A quanto ammonta ora il tuo debito con il cinese?”
“Sempre meno di quello con il kebabbaro di San Zeno.”
“Ottimo direi, allora c’è speranza che tu smetta di bere?”
Scoppia una risata generale. Anche Giacomino, in preda ai suoi pensieri, ride.
Arriva l’ora di mangiare insieme all’ombra degli ulivi.
“È scomparsa la pagnotta e ci sono meno biscotti. Deve essere stato il cane marrone. Sembrava docile e buono, ma è un ladro di biscotti l’infame.”
“Bisogna tenere gli zaini appesi ad un albero o sul filare, non in terra dove possono essere presi di mira da animali. Sei un pivello Lebowski. Tu e quei due che ti sei portato dietro!”

Lello ha ragione, hanno meno manualità e sono meno pratici di molte persone più avanti con l’età. Basta guardare Norberto, il più giovane del gruppo, che sa a malapena impilare tre casse.

Il supervisor si lascia a un momento di umanità e convivialità e offre un po’ di vino a Norberto.

Tutti stanno tranquilli al sole a mangiare, bere, chiacchierare. Ma i tre giovani del gruppo condividono un segreto, un qualcosa che li accomuna, una storia che permette loro di capirsi su alcune cose senza bisogno di dover specificare tutto. È il caos della vita, il “caos bello”, quello nel quale vittorie, sconfitte, disagi, dolori e passioni si mischiano.

“Vincere è troppo facile cari miei. Bisogna saper perdere, quella sì che è esperienza.”
“Eh no bello mio, la fai troppo facile, anche vincere non è un gioco da ragazzi.”

XIII

L’uva è bianca e blu. Il bianco è veleno, principalmente verderame e zolfo. Si passa dalle sei alle dodici volte l’anno. L’incaricato per questo lavoro, da un anno a questa parte, è Lello.
“Lello, sei tu il genius loci qua.”
“Cosa significa?” risponde Lello, mentre Piero bofonchia, chiedendo di parlare italiano o veneto.
“Vuol dire che sei l’anima del luogo, l’entità soprannaturale che permette a questa azienda agricola di esistere. Quando berrò questo vino penserò a te, alle tue giornate tra i campi, al tuo impegno su queste colline.”
“Ah beh, ma prima di bere quello che ho fatto io passeranno anni.”
Improvvisamente si inserisce Lebowski: “Oh Lello, ma la radio?”
“No Lebowski, allietaci con due cazzate tu, facciamo prima.”
“Cosa vuoi che ti dica? È il giorno della marmotta, sempre tutto uguale: la birra, il cinese, Mélanie. Tu piuttosto Norberto l’hai letto Conrad?”
“Bello. Anche se ora ho più in mente Herman Hesse. Il lupo della steppa, un anticonformista unico, oppure La cura, la storia di un uomo che va in clinica per rendersi conto che la follia è nella vita ordinaria e preferisce non tornare indietro.”
“Geniale, come La montagna incantata. Anche se poi tutti questi libri non sono serviti a nulla. Millenni di storia per trovarci al punto di partenza se non peggio.”
“La risoluzione al problema c’è.”
“Ah sì?”
“Certo, diventare un personaggio dei romanzi di Thomas Mann ed Herman Hesse. Andare a curarsi senza rientrare in società. Restare là, in una dimensione senza tempo, definitivamente.”

Dedico questo racconto a Gimbo che, nonostante l’entropia avanzi inesorabilmente, non potrà mai smettere di credere nella funzione salvifica della letteratura. E del vino della Valpo.

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