Il 17 agosto a Catania si celebra Agata, santa patrona, in modalità estiva; la grandiosa e primaria festa per gli abitanti del territorio dell’Etna si svolge invece a febbraio. Quest’anno ho assistito ad una versione notevolmente mozzata, a causa delle restrizioni anticovid. I quaranta gradi della città nera (a Catania strade e palazzi sono realizzati con materiale lavico fin dall’antichità: non solo i famosi monumenti barocchi, ma anche l’antico anfiteatro romano è di pietra nera, quindi unico nel suo genere) non hanno fermato i devoti della madrina.
Duomo sigillato. Messa telematica. Festa proibita. Cancello chiuso. Nessuna processione, nessuna visita, nemmeno turistica, negli interni, ma soprattutto non possono averla tra loro, ‘a Santuzza, coloro che, per un giorno, erano soliti entrare nella cornice del sacro. I devoti tuttavia non demordono, così si decide di imbastire una preghiera comunque, illecita, dimezzata. Ci si strazia a suon di cantilene, si piange e si rivivono i prodigi ricevuti sui gradini che sostengono la cancellata della Cattedrale. Ci si inginocchia in piazza, si portano fiori, si prega abbracciandosi in gruppo. Le preghiere sono gridate, perché la santa è dentro alla chiesa, mentre i devoti sono fuori e devono farle sentire “ca te volemu bene”.
Non mancherò di rispetto ai fedeli dicendo che è necessario entrare in una precisa cornice metacomunicativa, come ho imparato da Gregory Bateson, per non sentirsi di fronte a qualcosa di incomprensibile. Chi non vi entra è escluso dalla vera con-partecipazione. Può solo osservare, intuire, empatizzare o stranirsi senza capire davvero questo linguaggio.
L’elefantino è lì e osserva tutto dall’alto della sua colonna.
Tra Agata e il popolo catanese c’è un sodalizio datato 252 d.C. Un anno dopo il martirio della santa, essa venne invocata dal suo popolo in emergenza, quando l’eruzione etnea minacciò di toccare le porte della città. Il Velo rosso (la grimpa) che la copriva nella sepoltura, il quale rimanda al velum virginalis, cioè il simbolo della consacrazione delle vergini alla divinità durante l’epoca romana (volutamente non scendo nei particolari della storia del martirio perché agghiaccianti in una prospettiva anche di genere e non funzionali alla narrazione), venne portato al cospetto della colata nell’anniversario della morte della giovane Agata, il 5 febbraio. Per effetto della grimpa, secondo la tradizione, la lava cambiò direzione, evitando di investire la popolazione e l’abitato. Da allora, molte volte nella storia delle più minacciose eruzioni etnee, il Velo (talvolta insieme alle reliquie) è stato portato dal vescovo in carica contro il fiume di fuoco per richiedere la salvezza e la reiterazione del miracolo.
Pietro Carrera (sacerdote e scrittore) ne è testimone, ad esempio per gli anni 1329, 1447, 1536 nel suo Il Mongibello descritto in tre libri, nel quale oltra diverse notitie si spiega l’historia degl’incendi, e le cagioni di quelli (1636); Tommaso Tedeschi e Paternò [1] (teologo dell’università di Catania) e Athanasius Kircher (gesuita e studioso di vari campi del sapere) narrano l’ostensione del Velo a Mascalucia e Misterbianco il 13 marzo dopo soli due giorni dall’inizio della storica eruzione del 1669. In quell’occasione (sebbene, nell’arco del Seicento, fossero state frequenti le eruzioni potenti e durature) la lava forò le pendici laterali, generò il cratere di Monti Rossi, percorse 12 km di discesa e, con una portata dai 400 ai 600 metri cubi al secondo, giunse alle mura della città di Catania, presso la quale gli abitanti dei paesi etnei si erano rifugiati avvertiti dalle onde sismiche. Quindi disintegrò le riserve d’acqua della città e i campi coltivati situati fuori dalla cinta muraria, scavalcò anche quest’ultima e circondò il Castello Ursino. Giunse così sino al mare, nel quale si gettò. Apparve però miracoloso il fatto che la colata, una volta entrata in città, percorse solo poche centinaia di metri, risparmiando la distruzione dell’intero abitato.
Ancora, nel 1886 il Sacro Velo venne in soccorso di Nicolosi. [2]
Dietro alla venerazione di Agata si cela un paradosso nel senso che vengono messi ad agire in conflitto due elementi a cui i cittadini sono legati. Infatti l’amatissima santa, con la quale si identificano i catanesi, rappresenta anche la difesa contro ciò che essi hanno di più caro: l’alto monte di fuoco. Sì, perché, ho imparato, i siciliani della fascia circumetnea sono in costante relazione con la “montagna”: la osservano, la conoscono, la guardano, la nominano, se ne lamentano, la aspettano, la scrivono, la ascoltano, la respirano, la disegnano, la diffondono, la condividono, tra loro e sui social.
Non è un caso che Agata sia anche il nome della pietra di origine vulcanica, striata e colorata, formantesi in seguito alla deposizione di silice dentro alle cavità delle rocce basaltiche (antica lava pietrificata).
Agata è ricchissima, vestita di argento e coperta di pietre preziose; gli anelli che indossa sono più delle dita che possiede. La sua corona le è stata donata, si dice, da Riccardo Cuor di Leone, mentre faceva ritorno da una crociata. Non che io l’abbia vista, Agata, nel suo preziosissimo mezzo busto reliquiario sigillato nel duomo a lei dedicato; ma le sue raffigurazioni sono numerose in città: santini, calendari, riproduzioni conservate nelle vetrine di pasticcerie e negozi, fotografie.
“Jè cu saccu, Jè senza saccu, facite l’applauso alla patrona di Catania!” si grida nella piazza. Ovvero chi veste il saio, sia chi non lo indossa faccia l’applauso alla santa. Con questa espressione viene fatto riferimento all’abito che i devoti e le devote, grandi e piccoli/e, indossano e che rimanda alla serata in cui tutti i catanesi uscirono in camicia da notte per accoglierne le reliquie, provenienti da Costantinopoli, nel lontano 1126. Infatti è proprio quella data, la data di tale rientro, ad essere festeggiata nel giorno del 17 agosto, per cui viene rievocato l’evento anche attraverso l’abbigliamento dei fedeli: il saio bianco.
Un tempo Agata difendeva i catanesi dall’Etna, ma oggi è ancora così? Partecipando alla tradizione mi sembra che si sia verificato uno spostamento d’azione e di influenza verso i loro malanni individuali e quotidiani. Ho la sensazione che in questa circostanza il senso di salvezza dell’intera popolazione catanese considerata come gruppo, quindi il miracolo storico e collettivo della salvezza dal fuoco, lasci spazio all’interazione con le vite personali di ciascuno di essi. Viene dunque messo in luce, oggi, il rapporto privato con la santa di ogni cittadino e l’interferenza di questa nella propria vita in un “grazie” sentito e condiviso. Ma forse questa riflessione è solo il risultato della parzialità della celebrazione; bisogna poi tenere conto che oggi il vulcano è costantemente monitorato dalle tecnologie dell’INGV [3] e la divulgazione delle informazioni è condivisa con i cittadini mediante app e costanti comunicazioni. Esso potrebbe essere, dunque, meno temuto e forse più amato per i suoi meravigliosi giochi pirici.
I fedeli parlano in rima, intonano preghiere individuali intervallate da ritornelli corali “Cittadini, cittadini, viva Sant’ajita!”, “E cchiu forti, cchiu forti ancora: siamo tutti devoti tutti! Siamo tutti devoti tutti.” Le voci sono ritmate e ripetitive. Più lo urli più la senti, la santa, nella tua vita. Più lo urli più le sei grato, devoto. È singolare il fatto che ciascuno narri ad alta voce, anzi gridando, la propria disgrazia per la quale ritiene di aver ricevuto il miracolo, perché di solito, almeno per noi veneti, le sofferenze più grandi si custodiscono nel privato e non assumono espressione collettiva, di piazza. Invece qui: cchiu forti, cchiu forti ancora!
C’è chi afferma di aver invocato la Santa pregandola di fermare la attuale pandemia, ma ha ricevuto in sogno risposta negativa: si tratta di un problema globale e più complesso, fuori dalla sua sfera di influenza.
La cornice religiosa ingloba i devoti catanesi, mentre i turisti rimangono sbigottiti, all’esterno di essa. E questo confine, molto simile al sipario di un teatro che divide pubblico e attori, mettendoli in comunicazione allo stesso tempo, è segnato anche dall’interposizione degli schermi dei cellulari, che fanno da filtro tra lo sguardo e la scena.
Inoltre non vi è accesso alla lingua, perché tutto si svolge nel dialetto locale.
Per quanto la contingenza di questa celebrazione possa far apparire affievolito il rapporto tra il vulcano e la santa, la sua storicità è evidente anche nel legame topografico tra i due: basta voltarsi alle spalle per notare che l’importante via Etnea spacca la città collegando visivamente, con una linea diretta, Mamma Etna e la cattedrale.
Ma questa relazione è ormai labile, tanto da essere solo un lascito storico, o tornerà nuovamente il tempo per estrarre il Velo, data l’eccezionale attività eruttiva a cui da mesi i catanesi stanno assistendo?
[1] T. Tedeschi e Paternò, Breve raguaglio del’incendi di Mongibello avvenuti quest’anno 1669.
[2] S.Scalia, Dei miracolosi effetti del Sacro Velo della gloriosa San’Agata, in “Il vulcanico”.
[3] Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
In copertina: Eruzione dell’Etna (autore ignoto).