“Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. […] Nulla fu creato con malinconia, ricordatelo bene; nulla è triste profondamente, tutto è gioioso. […] Vogliamo perciò sistematicamente: 1. Distruggere il fantasma romantico ossessionante e doloroso delle cose dette gravi, estraendone e sviluppandone il ridicolo, col sussidio delle scienze, delle arti, della scuola. 2. Combattere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia.“
Così scrive Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani (Firenze, 2 febbraio 1885 – Roma, 17 agosto 1974) nel suo manifesto de Il Controdolore, uscito nel 1913, quattro anni dopo la pubblicazione del manifesto futurista di F. T. Marinetti, prendendo in questo modo le distanze dai movimenti culturali che lo avevano preceduto, quali il Crepuscolarismo e il Futurismo, e dai quali si era lasciato influenzare fino alla comparsa del manifesto in cui formula un’ideologia indipendente e personale, la cosiddetta “ideologia del buffo”.
L’autore riflette sull’imperfezione della condizione umana, imperfetta perché corporale e sottomessa all’idea di un Dio eterno e irraggiungibile, scissa dall’esperienza della pena e del dolore. Palazzeschi trova, dunque, la soluzione “contro (il) dolore” nel “riso”. Non si tratta dell’unico testo del periodo che propone il tema del “riso”, nel 1900 H. Bergson pubblica il saggio “Le rire”, nel 1905 S. Freud analizza il rapporto tra scherzo e inconscio e nel 1908 segue Luigi Pirandello con il saggio sull’umorismo.
Ridendo, l’individuo può estraniarsi dalla situazione dolorosa, elevarsi al di sopra di essa rimuovendo i sentimenti negativi e depressivi ed inoltre, con un atteggiamento allegro nei confronti della vita può evitare il rischio di una ricaduta. Il riso inteso come operazione di non-riconoscimento dei valori sociali rappresenta una sorta di riconquista della libertà e dell’individualità. Qui risulta evidente l’influenza dello spirito futurista dedito alla distruzione dei vecchi valori, ma tale filosofia della gioia contrasta irrimediabilmente contro la rigida ideologia futurista e anticiperà invece il movimento dadaista e surrealista, che presto (T. Tzara, H. Ball e H. Arp fondano il dadaismo nel 1916) prenderanno vita.
Basti ricordare il famoso poema del 1910 E lasciatemi divertire: “Tri tri tri, fru fru fru, uhi uhi uhi, ihu ihu ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente! Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire […].” in cui Palazzeschi propone un ritratto del poeta umorista. Nelle sue “piccole corbellerie”, nei non-sensi e nelle espressioni onomatopeiche, Palazzeschi pensa al divertimento giocoso come rimedio esistenziale mentre i futuristi rifiutano l’idealizzazione della tradizione e del passato contrapponendo degli ideali progressisti e modernisti. Lo scrittore è cosciente del fatto che nessun rito della tradizione borghese, cui il dolore è diretta conseguenza, è preservato dal sentimento estraniante del ridicolo e del grottesco. Il suo pensiero raggiungerà esiti ancora più estremi e culminerà nella “negazione del tutto”, poi ripresa dai dadaisti.
Oggi, a cento anni di distanza, viene spontaneo porsi qualche domanda: che cosa sarebbe rimasto se si fossero realmente distrutti i vecchi modelli? Cosa avrebbe sostituito la parodia in seguito alla scoperta dell’ambivalenza di ogni sentimento privo di un fondamento determinato? Il mondo è un gran varieté? La politica è un grande carnevale? Se vivesse ancora, Palazzeschi, ci avrebbe consigliato qualcosa di differente? Un rimedio, un nuovo toccasana per sbarazzarci dei pensieri dolorosi?