È la band strumentale che ha venduto più dischi al mondo (oltre cento milioni di copie), ma provate a chiedere in giro se qualcuno se li ricorda, se conosce i loro dischi, i nomi dei componenti. È il gruppo (anzi, il complesso: all’epoca in Italia li chiamavamo così) più celebre e sottovalutato del rock: The Ventures. Stelle assolute del pop americano nei sixties, poi dimenticati: o meglio, ci si è dimenticati di quanto siano stati importanti per tutto ciò che è venuto dopo. E la colpa, a voler cercare un colpevole, è dei Beatles.
I Ventures si formano a Tacoma, Washington, nel 1958. Il nucleo è composto da chitarristi (rispettivamente ritmico e solista). Insieme mettono su un duo, The Versatones, e si esibiscono nei club e alle feste private. La svolta è l’incontro con quello che sarà il terzo pilastro della band: Nokie Edwards, talentuoso giramondo con ascendenze cherokee. Inizialmente assunto come bassista, dopo pochi anni passerà alla chitarra, scambiandosi il ruolo con Bogle. Alla batteria sia alternano in molti, quasi sempre per brevi periodi: il più “longevo” è Mel Taylor, dal ‘63 al ‘72 (e poi di nuovo dal ‘79 al ‘96).
Alla fine degli anni Cinquanta il pop psichedelico e la british invasion sono di là da venire. La diffusione degli strumenti elettrici getta la basi per la nascita della surf music. A fare da apripista sono Dick Dale, Link Wray, Santo & Johnny. E la prima vera instrumental band: The Ventures.
L’esordio è del 1960 e fa subito il botto: Walk, Don’t Run. La copertina mostra una sorridente pin-up a figura intera; alle sue spalle, i quattro musicisti appena franati uno sull’altro insieme alla strumentazione, gli sguardi sulla ragazza, che evidentemente è la causa dell’inciampo collettivo: ecco perché bisogna camminare anziché correre. In quell’immagine è racchiuso tutto lo spirito ironico e giocoso dei Ventures. Trascinato dal singolo omonimo (rilettura di un brano del chitarrista Johnny Smith del 1954), l’album vende tantissimo e regala enorme notorietà al gruppo.
È l’inizio di una moda che imperverserà per anni negli States: ovunque nascono gruppi strumentali e non, spesso autori di un unico disco o anche solo di uno o due singoli degni di nota. Si sviluppano il pop surf (regno dorato dei Beach Boys) e l’hot rod rock, che è sempre surf music ma con un immaginario differente: non più onde e surfisti ma automobili e ragazze.
E i Ventures? Vanno per la loro strada pubblicando un disco dietro l’altro (quasi tutti presso l’etichetta di Seattle Dolton Records): gli LP di inediti, al 1965, sono diciannove (a cui bisogna aggiungere i singoli, le raccolte e le riedizioni). Una prolificità impensabile oggi, ma all’epoca si entrava in studio e in pochi giorni il disco era fatto. Registrazioni in presa diretta, post-produzione inesistente. Con simili ritmi la qualità si diluisce, ma la fama della band di Tacoma si consolida. Non solo si fanno apprezzare per l’ottimo livello tecnico, non solo seguitano a sfornare successi in serie: a suon di dischi venduti si danno al pionierismo e alla sperimentazione, sia nei suoni che nei contenuti.
La loro prima peculiarità è l’assenza di un tema ricorrente nei brani. Diversamente da altri gruppi, votati al proprio genere già nella scelta del nome (The Surfaris, The Challengers), i Ventures mostrano da subito un approccio eclettico e una grande capacità di variare registro, senza paura di esplorare territori nuovi. In questo senso, anche il loro nome è appropriato: “venture” significa avventura, impresa rischiosa, azzardo. Il loro quarto disco, The Colorful Ventures, è una sorta di primitivo concept album, in cui ogni traccia contiene un colore nel titolo. Brani brevi e ispirati, suonati con una perizia eccezionale e mossi da una luccicante vocazione impressionista.
Come era in uso tra i gruppi del periodo, i Ventures si cimentano con il repertorio classico del surf, con buoni risultati (la loro interpretazione di Pipeline, splendida cavalcata dei The Chantays, è una delle migliori di sempre). Allo stesso tempo, il talento compositivo del gruppo è una perla rara: Nokie Edwards è l’autore della leggendaria Surf Rider: brano reso immortale dalla rilettura dei The Lively Ones, sulle cui note si conclude Pulp Fiction (e bisogna rendere grazie a Quentin Tarantino per aver rilanciato, con i suoi film, un genere musicale rimasto nell’oblio per decenni). La versione originale è più scarna, ma non inferiore a quella degli amici/rivali californiani, gli unici in grado di contendere ai Ventures il titolo di migliore surf band di sempre.
Altro punto di forza del gruppo è la sperimentazione sonora, in un’epoca in cui la distinzione tra musica “colta” e “commerciale” era netta e le surf band (che erano il pop da classifica) suonavano più o meno tutte uguali: riverberi a molla e tremolo Fender senza risparmio. I Ventures vanno oltre questo canone. Nel 1962 incidono The 2000 Pound Bee, primo brano di sempre a esibire un fuzz, che anni dopo sarà uno degli effetti per chitarra più usati nel garage e nell’hard rock (il pezzo, tra l’altro, fu “trasmesso” da Dan Aykroyd al funerale di John Belushi, che l’aveva richiesto come proprio epitaffio).
Nel 1964 lasciano la fidata strumentazione Fender (chitarre Jazzmaster e Stratocaster, basso Precision), che costituiva l’armamentario fisso di quasi tutti i musicisti surf, per registrare un disco con le avveniristiche Mosrite “Mark I” (realizzate appositamente per loro): il risultato è Ventures in Space, uno splendido esperimento musicale caratterizzato da suoni unici per l’epoca. Si tratta ancora una volta di un album “a tema”: nasce il bizzarro connubio tra surf e fantascienza, poi ripreso da molti gruppi nei decenni successivi, come Laika & the Cosmonauts, i Man or Astro-Man? e gli italiani Cosmonauti.
A metà del decennio la british invasion sconvolge il mondo e proietta il surf verso la decadenza. Dal Regno Unito arriva una folta schiera di band (capitanata dai Beatles, ed ecco la loro “colpa”) decise a trasformare il pop in arte: complesse sovraincisioni, testi letterari e provocatori, concept album sempre più ambiziosi (basti pensare alle opere rock di gruppi come i Kinks, gli Small Faces, The Who). Per la genuina semplicità dei surfers gli anni gloriosi sono finiti, e i Ventures non fanno eccezione: continuano instancabili a pubblicare nuovi dischi e a macinare chilometri in tournée, ma la rivoluzione musicale (e culturale) in atto li metterà inevitabilmente ai margini. Nel 1968 se ne va Nokie Edwards (tornerà cinque anni dopo), sostituito da Gerry McGee.
L’ultimo successo del gruppo (1969) è il tema della serie Hawaii Five-O (scritto da Morton Stevens e suonato dai Ventures), che diventerà uno dei brani più richiesti nelle sale da ballo durante il decennio successivo (raggiungerà il quarto posto nella Billboard Hot 100). Gli anni Settanta sono anche quelli del definitivo declino per i Ventures, che in compenso diventano Big in Japan: nel Paese del Sol Levante la loro popolarità resta immutata (al punto da aver venduto il doppio dei Beatles) e anche negli ultimi anni i loro concerti in terra nipponica sono sold out. Già, perché i Ventures non si sono mai sciolti. È ammirevole la loro straordinaria longevità: dopo innumerevoli cambi di formazione la band resiste, indomita. Bob Bogle è morto nel 2009. Gli unici due membri originari del gruppo sono Edwards e Wilson, nati rispettivamente nel ’33 e nel ’35, e ancora suonano.
Non si contano gli artisti, dei generi più disparati, che hanno dichiarato l’influenza dei Ventures sulla loro formazione musicale: Stephen Stills, Gene Simmons dei Kiss, Billy Joel, Jimmy Page, Stevie Ray Vaughan, solo per citarne alcuni. Nel 2000 la Rock and Roll Hall of Fame Foundation riceve una lettera di petizione (la quinta) per l’inclusione dei Ventures nella prestigiosa galleria, avvenuta otto anni più tardi. La missiva contiene la migliore definizione per la band di Tacoma: “the band that launched a thousand bands”. La loro vocazione naïf, cancellata dal pop britannico, oggi ha un suono datato ma splendente, ricco di suggestioni sonore e cinematografiche: musica “lenta”, luminosa, buona per viaggiare e per camminare. Walk, don’t run.