(Ri)ascoltando – Un viaggio track by track alla (ri)scoperta di dischi che non possono mancare nella nostra collezione.
Refused – The shape of punk to come (1998)
Mentre tutti ci stavamo chiedendo se il punk fosse ancora vivo o definitivamente morto con la seconda ondata targata anni 90, arrivarono i Refused a dirci quello che il punk stava diventando. E non ce lo stavano chiedendo, ce lo hanno fatto ascoltare. Ma eravamo pronti? Probabilmente no e forse non lo siamo ancora, perché la musica “è rimasta la stessa” nel corso degli anni e abbiamo imparato poco, davvero poco.
Se vi dovessi spiegare questo disco in poche parole non potrei dirvelo in modo migliore di come abbiano fatto gli stessi Refused nel sottotitolo del loro album: una bomba chimerica in 12 esplosioni. Esatto, ogni pezzo è pronto ad esplodere nelle vostre casse quando meno ve l’aspettate e nel modo più brutale che vi possiate aspettare. Ogni canzone ha una vita indipendente dal resto del disco ma al tempo stesso, per essere capito nel suo significato più profondo, andrebbe ascoltato così come viene proposto nella scaletta decisa dal gruppo.
Se si parte già con l’acceleratore premuto con Worms of the senses / Faculties of the skull che esplode dopo una brevissima intro rumoristica, il primo cambio di rotta arriva in un intermezzo elettronico, quasi house tra la prima canzone e la successiva Liberation frequency, dove i Refused si fanno annunciare come la nuova banda svedese house da un fantomatico DJ che li presenta in italiano. Il secondo pezzo però non ha nulla a che fare con la house e tanto meno con il punk del titolo, sembra quasi un pezzo di una band indie che nel 90 imperversavano nelle college radio americane, ma da lì a breve una bordata pesantissima ci ricorderà che i Refused hanno deciso di farci esplodere lo stereo e, possibilmente, anche lo stomaco. Un hardcore furioso condito da uno scream sempre convincente ci accompagnerà devastandoci tra vuoti e pieni in un saliscendi di emozioni che sarà il vero filo conduttore dell’album.
The deadly rhythm innesca un qualcosa di jazz che difficilmente mi sarei aspettato su questo disco (se non nella citazione del titolo stesso): anche in questo caso la pesantezza delle chitarre e della voce ci assale per poi liquefarsi in un intermezzo fatto di walking bass e batteria swingata con voci sussurrate fino a deflagare nuovamente senza pietà nella più totale pesantezza che chitarre, batteria, basso e voce possono regalarci. Con Summerholiday vs. Punkroutine si riprende un po’ il fiato. Le chitarre si allegeriscono pur rimanendo taglienti, la batteria corre abbastanza veloce e il basso segue il cantato meno esasperato anche se si rimane sempre sul filo del rasoio aspettando un colpo inaspettato che però questa volta non arriverà, lasciandoci quindi godere quanto di più ballabile e vagamente punk, almeno per come siamo abituati a pensarlo, il disco ci offrirà.
Bruitist Pome #5 ci regala un intemezzo fatto di beat elettronici che ci preparano al momento clou del disco, New noise. Il pezzo più noto del disco e forse della band in generale, alterna chitarre affilate ad atmosfere spaziali e deflagrazioni sonore, bordate di rabbia condita da riff granitici che si intrecciano con saliscendi chitarristici che mantengono sempre la tensione alta: non c’è respiro, il sangue scorre bollente nelle vene e il sudore si mescola con il pubblico che acclama con il suo calore i nostri incitatori.
The Refused Party program ci spezza la schiena dopo solo qualche secondo di tranquillità, chitarre, chitarre e ancora chitarre, urla e ritmo secco e forsennato, non c’è scampo. Invece no, ancora una volta c’è qualche suono sintentico ma lievemente acido che ci introduce in Protest song ’68, dove per la prima volta nel disco il gruppo introduce uno dei pochi squarci melodici tra urla e chitarre impazzite. Non aspettatevi nulla di vagamente pop, siamo sempre nei territori dell’hardcore o del punk più soffocante che avrete mai sentito, non fatevi ingannare da una chitarra arpeggiata e la voce stranamente pacata, il delirio e la confusione sono sempre dietro l’angolo, come vi dimostra la successiva Refused are fucking dead, quasi fugaziana nell’intro.
Ormai forse avrete imparato a capire dove i nostri vogliono arrivare con la loro musica, anche se hanno provato a spiazzarci, riuscendoci tutte le volte, per dieci canzoni. Ma quando crederete di averli in pugno, ancora una volta i Refused vi sbalzeranno giù dalla sedia con la loro inesauribile carica elettrica e vi metteranno all’angolo con i loro deliri sonori per poi darvi il colpo di grazia con quello che assomiglia da lontanto ad un ritornello che vi troverete a cantare ogni volta a squarciagola.
Siamo arrivati alla title track, quasi danzereccia nel ritmo, ma che non farà altro che scatenare un pogo sfrenato in pista tra una distorsione e l’altra. Tannhauser / Derivè romperà nuovamente gli schemi, un violino ci ammalierà e sarà la prima donna tra ritmiche serrate, distorsioni abrasive che ci hanno scorticheranno l’anima e che torneranno prepotentemente per saturare l’aria che respiriamo. Il brano è forse il più introspettivo dell’album, più intimo, più cupo ed anche brutale per certi versi, non a caso il più lungo. Spoken words, la voce incerta di una ragazza che sembra rifugiarsi in tutto questo caos mentre la tempesta si abbatte su di noi, inermi e volnurabili a tente emozioni.
Lasciati a sopresa in una coda di rumore bianco prende voce un malinconico organetto che ci introdurrà all’ultimo brano dell’album, la conclusiva The Apollo programme was a hoax: è giunta la resa dei conti, un basso acustico accompagna una sconsolata chitarra e la voce che questa volta non urla, ma sembra sussurrare da una radio antica. Scorrono i titoli di coda su questo bombardamento sonoro durato poco meno di un’ora. A quanto pare il punk non è arrivato ancora a questa forma dopo più di 20 anni, c’è da dire che le intenzioni rimangono chiare anche in questo 2020 dove di chiaro c’è davvero poco.
Un disco manifesto, anche per le liriche decisamente ispirate, un complotto sonoro ordito nei più piccoli dettagli da una band che non è più riuscita a ripetersi in quanto a ispirazione e potenza, ma con questo disco ha ribadito per l’ennesima volta che il punk può essere tutto, tranne che un genere musicale.