Sono 30 i capolavori firmati dal grande regista giapponese Akira Kurosawa che hanno arricchito l’affascinante storia della cinematografia. Poesia come contenuto e significato dell’opera, pittura nell’espressione visuale e musica in quella sonora, le sue creazioni offrono l’intensa esperienza di tutte le arti. Se Rashōmon, L’Idiota, I sette samurai, Ran, Kagemusha o i Sogni sono nomi conosciuti ai cultori del cinema, non molti sono tuttavia quelli a conoscenza della vocazione iniziale di Kurosawa.
Nato a Tokyo nel 1910, Akira era il più piccolo di otto figli di una povera famiglia, che vantava però antenati appartenenti a un antico ramo dei samurai. Prima di diventare una delle più influenti figure del cinema, Kurosawa entrò nel mondo artistico armato di pennello, un’inclinazione che fu stimolata probabilmente dall’educazione ricevuta dal suo professore delle elementari, il signore Tachikawa che lo iniziò “nelle belle arti – e tra queste il cinema.”
Lo spirito progressista del professore sembra aver influito profondamente sulla scelta del suo allievo: questi infatti, amante dell’arte di Cezanne e di Van Gogh, considerava l’Accademia una “perdita di tempo” e scelse dunque di iscriversi alla Doshusha School of Western Painting, nel 1927. Qui il suo talento venne riconosciuto pienamente, tanto che le sue pitture furono selezionate due volte per la grande mostra Nitten, organizzata dalla società degli artisti progressisti, che includeva anche opere legate al Surrealismo e all’Astrattismo.
Quello in cui visse l’artista era un periodo di grande apertura verso l’Occidente, che provocherà in seguito anche una profonda ed inevitabile crisi d’identità. Il processo era iniziato già nell’epoca Meiji, quando in Giappone l’orizzonte culturale vide una divaricazione tra i tradizionalisti (lo stile nihonga) e i promotori dell’arte Occidentale (Yōga).
Il regista parla dell’impronta cruciale che tale rivoluzione lasciò sulla sua produzione: “nell’epoca Meijin tutto quello che veniva da fuori iniziò a penetrare con una velocità incredibile. Abbiamo provato ad assorbire tutto questo il più presto possibile – letteratura, pittura, musica, arte occidentale. Quindi, tutte queste cose fanno parte del mio stile, ed escono fuori con molta naturalezza.”
I giovani artisti giapponesi partivano per l’Europa con l’intento di studiare la nuova arte, mentre Kurosawa, data la sua precaria condizione economica, non poteva permettersi tale lusso. Egli pensava invece ad aiutare la sua famiglia dipingendo cartoline, ma in breve tempo la sua pittura diventò una passione troppo costosa: “persino un tubetto di colore era di solito troppo caro per me.”
Il suicidio del suo amato fratello, Heigo – benshi (narratore dei film muti giapponesi, che, a lato della sala, interpretava le voci di tutti i personaggi e della voce narrante) al Cinematografo di Musashino, causò la decisione di Akira di abbandonare la pittura per dedicarsi ad un’altra arte: la cinematografia. “Quando ho cambiato la mia carriera ho bruciato tutte le mie opere. La mia intenzione era quella di dimenticare per sempre la pittura.”
Nonostante il suo gesto violento, Kurosawa non smise mai di dipingere, infatti il suo pennello continuava a lavorare attraverso l’obiettivo della cinepresa e le immagini dei suoi film ci colpiscono e ci parlano con la liricità del linguaggio pittorico. La luce che si posa simbolicamente sul viso di qualche personaggio, la scenografia, i movimenti emblematici, i colori, i panorami, tutto tradisce la sua iniziale vocazione.
Paradossalmente Kurosawa adottò alcuni aspetti dell’arte occidentale per valorizzare la tradizione giapponese, ad esempio trasse dai western di John Ford la modalità d’integrare le figure nel paesaggio usando il long shot (il panorama), esprimendo così la relazione tra l’uomo e la natura, e nello stesso tempo per usare il paesaggio come un soggetto a sé stante. La sensazione di bidimensionalità, insieme al movimento della cinepresa che segue il corteo dei personaggi in Kagemusha, ci potrebbe far pensare alla maniera in cui venivano dispiegati i rotoli orizzontali della pittura tradizionale cinese del paesaggio.
In effetti Kurosawa asserì che il suo pittore preferito era Ike no Taiga (1723–1776), artista giapponese di epoca Edo, che dipingeva nello stile bunjinga (o nanga) e che nutriva una sincera ammirazione per la cultura cinese.
Kagemusha I corvi
I Sogni (1990) sono un altro momento della sua carriera che può rivelare lo stesso riferimento. Il film è composto da 8 episodi che rappresentano i sogni fatti da Kurosawa durante la sua vita. Nel quinto corto, intitolato I corvi, ispirato all’opera di Van Gogh il Campo di grano con volo di corvi, uno studente d’arte – che potremmo identificare col regista stesso, visto il modo di vestire – si trova in un museo; mentre ammira Il Ponte di Langlois, il giovane artista entra nel quadro. Nel film, lo studente percorre le pitture di Van Gogh ed incontra il grande artista francese, interpretato da Martin Scorsese. Il Sogno è legato alla filosofia che sta alla base del saper guardare la pitture cinesi e alla modalità con cui gli artisti dovevano sognare ed interiorizzare ciò che in seguito veniva dipinto. Questo film può essere interpretato dal punto di vista simbolico, come un incontro tra due pittori, e contestualmente tra due registi. Avviene una sorta di cortocircuito, per cui allo stesso tempo si incrociano due mondi diversi: quello europeo e quello giapponese; e due tempi: uno che evoca l’influenza della stampa giapponese sulla pittura di Van Gogh, e l’altro l’impronta dell’impressionismo nella contemporaneità di Kurosawa.
Il secondo dopo guerra fu un’epoca di crisi morale e sociale, e al riguardo il regista scriveva: “Sento che senza la costruzione del sé come valore positivo, non può esistere la libertà e la democrazia.” Questi valori sono quelli degli antichi samurai, elogiati attraverso un ritorno alla natura, in opposizione al mondo moderno visto negativamente. I Sogni: Il Monte Fuji in rosso e Il Diavolo che piange ci mostrano, con i loro colori forti e drammatici, la natura peccaminosa dell’uomo, lo stato di insicurezza associato al mondo industrializzato. Nell’ultimo sogno, invece, Kurosawa ci traspone in uno spazio idealizzato, e quindi inesistente, poiché in realtà era un luogo in cui non abitava nessuno quello de Il Villaggio dei mulini d’acqua.
Il villaggio dei mulini d’acqua, Sogni (1985) Il funerale di Shingens nel lago Suwa
Kurosawa non fu molto apprezzato in Giappone, tanto che una serie di insuccessi lo portarono a tentare il suicidio nel 1971. Nel periodo in cui aspettava i fondi per la realizzazione del suo film Kagemusha, Akira ritornò alla sua prima vocazione. Per cinque anni realizzò gli storyboards, dei dipinti veri e propri a grandezza naturale. Lo stesso processo di elaborazione del film nasceva dunque come pittura, e questo è evidente anche nelle scene ulteriormente girate.
La sua opera testimonia la personalità complessa di Kurosawa, il suo interesse per il nuovo e nello stesso tempo, la reverenza per i valori tradizionali giapponesi, rielaborando e adattando a quest’ultimi motivi della cultura europea: Shakespeare in Ran, Dostoevskij nell’Idiota.
Il sogno del falso Shingens Sogni (Yume), 1990
Dopo esser riuscito a dar vita a una collezione impressionante di “sceneggiature dipinte”, il vero sogno del giovane pittore divenne realtà nel 1994, quando si tenne a Manhattan una mostra che ha raccolto insieme più di 100 sue opere.
Dunque quando godiamo di un film di questo grande regista bisogna considerare che nella sua opera si avverte una forte sensibilità di pittore.