Cercando in internet il Ratto di Proserpina otteniamo per prima articoli e immagini relativi al gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, solo successivamente notizie sul racconto mitologico di Ovidio nelle Metamorfosi. Questo accade quando una statua diventa più mitica del mito stesso. Un mito del mito. In marmo. La storia dell’arte fa anche questo, ribalta le scene. Chiaro, se sei Bernini.
Ma ripartiamo da Ovidio.
Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17 d.C.) nel quinto libro delle Metamorfosi ci racconta di una bella ninfa rapita dal dio degli inferi. È una storia che ci insegna come i popoli antichi intendessero il ciclo delle stagioni, l’alternarsi del bel tempo di semine e raccolti con quello brutto di piogge e tormente. È tra le più celebri della tradizione pagana siciliana, ambientata vicino ad Enna, sulle rive del lago Pergusa.
Tutto iniziò per causa di Venere che chiese ad Amore di colpire Plutone dritto al cuore. Amore obbedì, aprì la faretra, scelse la miglior freccia e scoccò. Si dà il caso che il dio, in quel momento, fosse affiorato dagli inferi al pelo terrestre, godendosi la vista di un bel laghetto nel centro della Sicilia. La freccia colpì, Plutone impazzì. Volse lo sguardo e scorse in un prato un gruppo di fanciulle che coglievano fiori con movenze leggere, fiori tra fiori. Tra di loro per bellezza spiccava Proserpina, la figlia di Cerere, dea delle messi. Il dio degli inferi si sentì bruciare d’amore, dunque uscì dalle acque trainato dai suoi cavalli neri e la voglia di rapirla. Ella fu colta dal terrore e fuggì insieme alle compagne. Plutone l’afferrò di fretta, la pose sul cocchio e la trascinò giù nelle acque. Ciane, compagna di Proserpina, cercò di ostacolarlo, di fermare i cavalli, ma le ire del dio la trasformarono in fonte, che ancora oggi con i suoi bei papiri porta le sue limpide acque a Siracusa. Cerere, disperata, scese dall’Olimpo e cercò sua figlia per mari e monti. Dopo nove giorni e nove notti insonni di dolore, decise di rivolgersi a Giove e supplicarlo di farle riavere sua figlia dall’oltretomba. Ma Giove non volle obbedire, e lasciò la fanciulla a suo fratello.
Folle di dolore, Cerere provocò una grande siccità su tutta l’isola. E con la siccità vennero le carestie, e con le carestie la povertà, e uomini e bestie morivano in grande quantità. Mai mettersi contro una madre in furia. Giove dunque si convinse ad intervenire e mandò Mercurio da Plutone per imporgli di restituire la bella Proserpina. Plutone accettò ma prima di liberare la sua amata le fece mangiare dei chicchi di melograno, simbolo di fedeltà coniugale, costringendola così, ad un connubio infernale: Proserpina era legata per sempre all’Ade.
Ad ogni modo, Giove riuscì a mediare un accordo, una sorta di patto alla romana: Proserpina poteva passare sei mesi l’anno in terra con la madre, e i restanti sei negli inferi col marito. Ed ecco così spiegate le stagioni, il bello e il cattivo tempo.
Le parole di Ovidio sono un continuo flusso di immagini: è toccante ad esempio quando spende molti versi sulla tenacia di Ciane che lotta contro Plutone, o quando narra la disperata ricerca di Cerere, che ad un certo punto trasforma anche un ragazzo in lucertola tanta era la rabbia. Il momento del ratto, al contrario, è descritto in poche parole, veloce come il gesto stesso, in un sol verso Plutone la prende e se ne va:
“I rami danno fresco, la terra umida produce fiori:
è un’eterna primavera. In questo bosco Proserpina
mentre gioca a raccogliere viole e candidi gigli,
e ne riempie con zelo fanciullesco le ceste e il seno,
e in ciò cerca di superare le sue compagne,
fu subito vista e amata e rapita da Dite, [Dite= Plutone]
tanto irruppe a precipizio l’amore.”
(Metamorfosi V, vv. 390-396, traduzione Zanichelli 2010)
L’iconografia di questo episodio ha cavalcato tutte le nostre ere ma ha avuto un particolare successo nelle epoche classiche, tra romani e greci. Si ritrova spesso nell’arte funeraria, nei bassorilievi dei sarcofagi, a rappresentare più ampiamente il ciclo della vita, il passaggio nell’aldilà, morte e rinascita.
Questo è un sarcofago romano del II secolo d.C. agli Uffizi di Firenze, passa spesso inosservato eppure cela tante belle storielle.
Della pittura ellenistica non c’è pervenuto molto, al contrario della scultura. Ma a Verghina, nel nord della Grecia, è stata trovata una tomba risalente al IV sec a.C. con all’interno un affresco di sconvolgente naturalismo e perfezione prospettica. Nel dettaglio si nota lo sguardo impaurito di Proserpina, e i suoi ricci capelli al vento. Il panneggio ha un volume notevole dato dal movimento, le traiettorie delle ruote del carro sono in perfetta proporzione con il corpo accennato del cavallo. È commovente l’ultimo saluto tra madre e figlia.
Facendo un salto enorme arriviamo a Firenze a fine ‘600, e nel frattempo la nostra storia ha trovato ben altri luoghi dove farsi raffigurare. Qui troviamo Luca Giordano, pittore barocco napoletano, al lavoro per i Riccardi, famiglia che aveva appena comprato dai Medici il loro ormai vecchio Palazzo in centro (robina da nulla, praticamente dove è nato il Rinascimento), e quindi gli commissiona una grande opera ad affresco per il salone da ballo. Ne deriva un incantevole ciclo di storie mitologiche che, in pieno gusto barocco, si appropriano di tutta la superficie disponibile. E allora eccolo Plutone che rapisce Proserpina che si dimena e la cesta di fiori appena raccolti che cade a terra. È il pittore della luce, il cielo è terzo, e quel soffitto vale la visita. Piccola curiosità: il Giordano era chiamato “Luca fa presto” per la sua rapidità d’esecuzione, che chiaramente costava meno tempo e soldi ai committenti, che erano dunque felici di assumerlo. Astuzia napoletana senza tempo.
Andiamo a Roma, e vorremmo rimanerci. Siamo alla Galleria Borghese, e in mezzo alla sala c’è il Ratto per eccellenza, quello del Bernini, che merita più immagini. Che bella cosa quella di poterle camminare intorno, è un po’ come rileggere la storia dall’inizio alla fine. Sì, perché la scena è straordinariamente dinamica, e a render possibile questo è un astuto gioco di forze contrapposte tra le due figure che creano un movimento a spirale, un vortice nel quale è necessario farsi trasportare. Plutone di corsa arriva, lascia cadere lo scettro ai suoi piedi, afferra Proserpina e si immobilizza. Ora è fermo, fortissimo, inamovibile. Lei dalla foga si dimena e lo colpisce in faccia, e quella faccia si allunga, diventa elastica. I muscoli di lui si contrappongono alle gentili carni di lei, che disperata piange, e sul suo volto si disegnano, come fosse pittura, le sue lacrime. E poi c’è Cerbero, fido compare, che con le sue tre teste fa da guardia ad ogni angolo della sala. Bernini mette sul marmo quell’aria di cambiamento che Roma stava attendendo. Va oltre le sue ben note “statue parlanti” con la bocca aperta a gridare, qui trasforma la pietra in pelle, in carne dove potersi immergere. Il dettaglio che fa rimanere senza fiato è la mano che affonda nella coscia, è qui che si capisce che questo è un rapimento d’amore: è feroce sì, ma abbonda di sensualità.
Consiglio vivamente una visita alla Galleria Borghese, appena si potrà. È un luogo unico che, grazie all’avidità collezionistica del Cardinal Scipione, oggi custodisce molti Caravaggio che fissano altrettanti Bernini.
In copertina, il dettaglio di quest’ultima opera. Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma, 1621.