A Sulmona il treno sul quale sono salito sta per muoversi per me solo: è completamente vuoto. Il conducente sembra essere l’unico a bordo e dover svolgere tutte le funzioni solo con l’ausilio di se stesso, e per gli ultimi minuti prima della partenza corre da una parte all’altra dei vagoni. Il mezzo vibra il rumore di un grosso motore diesel e si muove come un autobus. A destra, in fondo, dei monti scuri, ornati da nubi opache alla cima, non hanno l’aria di un riparo naturale, ma quella di una sagoma che sembra addossarsi minacciosa ai grumi di case ai suoi piedi, quasi schiacciati dal profilo bruno che in alcuni momenti offre l’inganno di muoversi nella loro direzione.
Il viaggio si inoltra velocemente e il paesaggio sembra rabbonirsi. Presto ci si trova ad avanzare sul fondo di rupi, tra gole alte, in cui rocce spoglie dal colore rosato sbalzano in cima, quasi ripiegandosi su se stesse, e la luce in basso pare da queste solo concessa. A capo hanno merlature corrose attraverso le quali cedono la vista a un cielo spoglio e luminoso, ma che sembra tenersi lontano.
Presto il paesaggio si fa riccamente boschivo, nel mezzo c’è posto per l’uomo in qualche piccolo spiazzo tra gli arbusti, per un ponte o una villa, ma per gran parte è il verde, ormai pallido ed ingiallito, ad essere egemone. Piccoli corsi d’acqua gorgheggiano lasciandosi intravedere tra rami magri e foglie sospese. Il paesaggio è intenso, e la stagione imperante: una divinità dell’autunno, se vi fosse, risiederebbe di certo in questi luoghi.
L’aria è vagamente gelida, e dopo poche gallerie San Demetrio De’ Vestini annuncia un suolo pianeggiante, turbato solo da poche increspature in cui ondeggia la stessa roccia che si spaccava profonda fino a poco prima, e che sembra riemergere in onde, brulle e scarne, dal profilo rude, in cui a volte si intersecano muri di fortuna.
Lentamente il paesaggio solido delle tracce umane va sgretolandosi. Appaiono i primi ventri in pietra recisi, le prime puntellature, i primi squarci nei muri, le prime crepe che su facciate esplodono ramificate come vene in pressione, si realizzano i primi sguardi crudi nelle vite private, rese pubbliche e immobili, come in una foto, da un’improvvisa apertura.
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Una volta in città, preceduti come si è dai racconti, la tentazione è quella di vedere ogni volto come il volto di un sopravvissuto. Ma l’entità del fatto è pervenuta per bocca altrui, e per sapere cosa è stato occorre vedere. Lo scarto sta qui: tra la notizia che corre e ciò che è la realtà. Il desiderio è di uscire dall’incantesimo della narrazione per comprendere quali sono i confini della realtà e quali le capacità della parola. A costo che la parola si mostri debole, a costo che la realtà si mostri debole, l’una nei confronti dell’altra.
Attraverso L’Aquila di sera, in direzione Marruci di Pizzoli, la località dove devo alloggiare. Allontanandomi dalla stazione sono circondato da blocchi enormi abbracciati dal buio, punto di partenza di una fuga, monumento a cose che sono state. In questi palazzi di rado qualche lume è acceso. Mi spiegano che siamo a ridosso del centro, dove ogni luogo è stato evacuato. Di tanto in tanto strutture di supporto, come braccia tese, arginano il tentativo degli edifici di cadere.
Raggiunto il mio alloggio non resta che immaginare per tutto il tempo cosa vedrò all’indomani. Poi il giorno arriva. La città è viva, il traffico si muove e sembra circumnavigare il centro. Poi lo scopro: la città si comporta come un corpo, la vita ruota intorno a un organo morto, dove il sangue non scorre o scorre poco.
Entro in un piccolo centro commerciale a pochi minuti dal centro storico. È una struttura moderna, e all’interno non differisce in nulla da un normale accorpamento di attività commerciali come ce ne sono ovunque, in qualsiasi altra località. Mi decido a visitare una di queste attività, un ottico per la precisione. Mi guardo intorno, è tutto perfetto, chiaro, moderno. Verrebbe da dire “normale” con lo stesso gusto con cui si pronuncia una parola fuori luogo, come se qui, in questa parte del mondo, si dovesse ammettere sempre una sottintesa anomalia per dovere, come se una malattia incurabile attanagliasse questo luogo e di fronte a questa si dovesse usare tatto, come se nel riconoscerla si riconoscesse, attraverso un’inspiegabile forma di rispetto, una dignità e una reverenza che sono dovute esattamente come di fronte a un malato. Questo percepisco mentre ho la sensazione che tutto qui voglia viaggiare in senso contrario alla commiserazione. Poi, casualmente, l’occhio, come per effetto del familiarizzare col luogo, comincia a reagire, ed improvvisamente i particolari sono visibili. L’occhio percorre il perimetro del soffitto, al quale sono applicati dei faretti incassati. Una, due, più crepe, prima non visibili, ora si mostrano chiare: attraversano tutta la stanza da una parte all’altra, alcuni faretti si sono sganciati e penzolano all’indifferenza dei presenti. Pezzi di intonaco sono in procinto di cadere o sono caduti. Una convivenza inquietante deve essersi instaurata, esistente come un patto scaturito da un atto di forza, tra ciò che gli eventi naturali hanno preso a essere e ciò che gli uomini qui continuano a essere senza dare l’impressione di volervi rinunciare.
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Raggiungo il centro abitato, e da subito è chiaro un diffuso trafficare di lavoro, gli operai sono indaffarati, e a pochi metri una camionetta con due alpini ci accoglie. Addentrandosi si incontrano cittadini tranquilli a passeggio, e si passa di fronte ad attività commerciali regolarmente aperte. La vita germoglia. Piazza Duomo è luminosa e ampia, piacevole così come Corso Vittorio Emanuele, che percorro fino in fondo. I danni sono profondi, ogni facciata è retta da puntellature, e nelle vie laterali che si intersecano l’atmosfera sembra più inquieta solo di poco. Percorro tutta la via, poi cambio strada e rientro nella zona da una via secondaria ma l’atmosfera è improvvisamente diversa. Alla vitalità appena incontrata si sostituisce un silenzio sempre più scandito, i danni mantengono una presenza diversa, qualche cumulo di macerie sta ancora aspettando di andarsene. Attraverso un percorso interno, un intreccio di vie, e mi accorgo di essere andato troppo oltre e di aver perso l’orientamento, gli incontri si fanno sempre più rari, il silenzio progressivamente più grande, il volto della città si stravolge: i segni della distruzione sono profondi, tutto, facendosi beffa del tempo, racconta ancora i fatti usando le tracce di un arresto improvviso delle cose. Nel frattempo il clima cambia, si affievolisce la luce della giornata per mezzo delle nuvole e si alzano folate di vento che corrono nei vicoli, il rumore che ne scaturisce è inquietante, squillanti e secchi scricchiolii risuonano netti, e il silenzio offre un contrasto formidabile. Dalle porte aperte, dalle finestre, dagli squarci, sono visibili oggetti di vita quotidiana riposti come in attesa. Molti sono nelle strade, gettati in pasto alla pioggia e al sole, o sotto gli archi e gli antri dei palazzi e di ciò che ne è sopravvissuto. Ogni porta sembra essere l’entrata di un sepolcro sul quale risuona la domanda “quem quaeritis?”, come sottintendendo che “essi” sono altrove, quel qualcuno che si sta cercando è andato via.
A poca distanza si ricomincia a vedere qualche operaio che trasporta del materiale, dei tecnici con carte alla mano discutono. L’occhio attraversa la via rapidamente cercando di sondarne il fondo, e scopro di non essere lontano dalla prima strada che ho attraversato, ovvero Corso Vittorio Emanuele, che mi era parso un respiro: a questo punto si articola l’idea che quella stessa via tagli una città non solo svuotata e sofferente, ma promessa all’attesa. Ovunque si manifesta, in molteplici forme, la voglia della città di cedere su se stessa lasciandosi andare, ma legno e ferro l’abbracciano stringendone le membra, tenendola assemblata.
dscf0096dscf0103La macchina fotografica si è spenta senza darmi altre possibilità. Nella mente restano colori indelebili. Addosso, come polvere, resta un silenzio che non si scuote nell’aria coi colpi e in parte lascia quel luogo con me, seguendomi. Ma di tutto ciò che le narrazioni altrui avevano prodotto nella mia mente non c’è traccia: questa è un’altra città, una città distrutta e ricostruita in un altro modo da quella di cui avevo sentito parlare a partire da qualche anno fa. E di certo ogni occhio testimonierebbe immagini diverse. Per ogni occhio una città diversa ad aspettarlo, nessuna voce può modificare questo corso.
Ogni giornale, ogni cronista, tentano di violare una legge, che è una legge di solitudine: nessuno con le parole può affidare qualcosa ad un altro uomo. O in altre parole: ciò che un uomo percepisce resta irrimediabilmente di quell’uomo.
Riparto, e in senso contrario le cose progressivamente si ricompongono, le recisioni si ricuciono, scompaiono. Il bagaglio del ritorno è molto più ingombrante: con me ci sono tutte le cose che potrebbero essere.

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