Lo scorso 22 giugno, dopo l’assassinio della deputata britannica Jo Cox e alla vigilia del referendum sulla Brexit, sul sito ufficiale dei Portishead è stato pubblicato il videoclip di SOS, cover degli Abba incisa un anno fa per il film High Rise. La rilettura della band del Somerset stravolge il brano originale, che da inno pop agrodolce si trasforma in una nenia cupa e terrorizzante; il video, consistente in un’inquadratura fissa della cantante Beth Gibbons, si conclude con una citazione della Cox. Fin qui nulla di strano: sono degli artisti che, senza strepiti né gesti clamorosi, intervengono nel dibattito politico per esprimere la propria opinione. A lasciare interdetti, semmai, è il fatto che gli stessi artisti abbiano dato notizia di sé dopo anni di silenzio.Formatisi nel 1991 a Bristol (Portishead è il nome di una cittadina poco distante in cui Geoff Barrow, “cervello” del gruppo, è cresciuto), nel fertile ambiente che nello stesso periodo vede crescere i Massive Attack e Tricky (il cosiddetto trip-hop), si pongono da subito l’obiettivo di gettare un ponte tra le nuove opportunità offerte dalla tecnologia digitale e i loro gusti rétro: il chitarrista Adrian Utley è un cultore di Morricone e più in generale di colonne sonore cinematografiche; la Gibbons ha parlato di Billie Holiday come di una delle sue principali fonti di ispirazione. Nasce così il connubio tra soul, dub e “musica da film” che diventerà il loro marchio di fabbrica.
Nel 1994 pubblicano il primo disco: Dummy, un album innovativo e riuscitissimo. Tra atmosfere noir e spaghetti-western, inserti scratch e chitarre liquide, massicce dosi di sintetizzatori e campionamenti, i Portishead mettono insieme un’opera perfetta e appassionata, capace di influenzare radicalmente la produzione musicale degli anni successivi e allo stesso tempo di ottenere un grande successo commerciale. Nonostante la straordinaria fioritura di nuove idee nella prima metà dei nineties, ancora oggi Dummy risplende come una delle gemme più preziose di quel periodo.Se sei all’esordio e hai già scritto un classico della musica pop, proseguire la carriera può essere difficile. C’è chi prova ad esplorare nuovi territori senza perdere di vista i primi passi compiuti (ad esempio lo hanno fatto i Pearl Jam e gli AIR); c’è chi si brucia prima di poter confermare il proprio talento (Jeff Buckley, Syd Barrett); ci sono quelli che gettano via il tesoro appena scoperto per andare da tutt’altra parte, senza minimamente preoccuparsi di spiazzare il proprio pubblico (è il caso dei Radiohead o, in tempi più remoti, dei King Crimson). I Portishead hanno scelta una strada tutta loro: sono scomparsi.
Nel ’97 esce il loro secondo disco, intitolato semplicemente Portishead. Meno accattivante e privo di quella sequenza di singoli travolgenti del predecessore, l’album conferma le qualità della band, che riesce ad ampliare i propri orizzonti pur senza discostarsi dall’impianto originale. L’anno dopo pubblicano Roseland NYC Live, un disco dal vivo che testimonia il loro talento smisurato e la loro capacità di trasformare un concerto in un evento. Capacità di esecuzione straordinaria unita ad un’orchestra che arricchisce il suono del gruppo e alla presenza ipnotica di Beth Gibbons, per uno dei migliori live album del decennio. Sembra il preludio ad una marcia trionfale, anzi il trionfo c’è già e bisogna solo cavalcarlo. Invece i Portishead scompaiono dalle scene.Bisogna aspettare il 2005 per rivederli sul palco (a Bristol, per un concerto di beneficenza): sette anni di completo silenzio. Il mondo della musica va avanti, cambiano le sonorità e i gusti, l’epopea del trip-hop lascia spazio alle nuove tendenze per entrare nei libri di storia, mentre i suoi maggiori rappresentanti quasi non danno segni di vita. Nel 2008, undici anni dopo il disco precedente, danno alle stampe Third. Un disco ai limiti dell’incredibile, che dà senso all’interminabile attesa. I tipici caratteri del Bristol Sound si sono trasformati in una miscela claustrofobica e ossessiva: loop sfrenati e ritmiche industrial dipingono un mondo infernale e senza luce, dove aggrapparsi alla voce inarrivabile della Gibbons è l’ultima speranza. La cura degli arrangiamenti è, se possibile, ancora più maniacale e ricercata di quanto già non fosse. Nessuna celebrazione né la minima nostalgia per i fasti del passato: i Portishead erano nuovi e geniali negli anni Novanta, e dimostrano di esserlo ancora nel nuovo millennio.Dopo questo folgorante ritorno, Gibbons e compagni sono tornati nel loro mondo, a distanza di sicurezza dai neon abbaglianti dello star system. Un disco violento e difficile come Third non poteva certo ottenere i risultati di vendite di Dummy (e forse era quello che volevano), per cui stavolta allontanarsi dal clamore e tornare nell’accogliente nebbia di Bristol è stato più facile. Non che in tutti questi anni siano rimasti con le mani in mano: Beth Gibbons ha pubblicato Out Of Season (2003) in coppia con Rustin Man (pseudonimo dell’ex Talk Talk Paul Webb), e ha partecipato come ospite a numerosi progetti; Geoff Barrow ha avviato un progetto kraut-rock chiamato BEAK, che al momento ha due dischi all’attivo; sia lui che Utley hanno prodotto diversi album per altri artisti e vantano una lunga lista di collaborazioni. Dopo Third la band non è scomparsa del tutto: l’attività live, pur non essendo intensa, non si è mai interrotta del tutto negli ultimi anni.
I Portishead sono schivi, riservati e non amano interagire con la stampa – forse anche per via dell’etichetta trip-hop affibbiatagli all’esordio, che non hanno mai gradito. Non disdegnano i grandi palchi come Glastonbury o Montreux, ma non si spremono in tournée estenuanti ed esigono autonomia artistica assoluta: nel 2008, invitati ad esibirsi al Later… with Jools Holland, hanno rifiutato di modificare la scaletta per fare spazio ai brani più “morbidi” di Third, puntando invece sull’artiglieria pesante del disco (e in particolare sulla mortifera Machine Gun, una delle loro migliori composizioni di sempre).
Sono sempre attivi ma si muovono nell’ombra, senza fretta né rumore, secondo un ritmo di lavoro privo di scadenze e rituali obbligati: basti pensare che per promuovere Third negli Stati Uniti hanno intrapreso un tour dopo tre anni dall’uscita del disco. Forse vogliono solo vivere tranquilli e farsi i fatti loro, ma sorge spontaneo il dubbio che la loro intenzione sia allontanare da sé tutto ciò che viene dal clamore mediatico, dal cosiddetto hype, per far parlare soltanto le proprie creazioni. Mentre il mondo della musica accelera e si orienta sempre di più sul consumo frenetico e superficiale loro rallentano, attendono, soppesano con cura ogni nota e ogni secondo di silenzio, dimostrando una dedizione alla propria arte che ha pochi eguali nella storia del rock.Nel 2014 Adrian Utley ha dichiarato che il nuovo disco era quasi pronto e che non avremmo dovuto aspettare undici anni per ascoltarlo, come era successo con Third: dopodiché non se ne è saputo più nulla, e gli anni trascorsi ormai ammontano a otto. Per amare i Portishead serve molta, moltissima pazienza, ma chi non si è dimenticato di loro sa che ne vale decisamente la pena. E se li aspettate, ve lo dimostreranno ancora.