Chi era Pippo Fava? Fava era uno dei tanti. “Tanti” nel senso dei parecchi con i quali ha condiviso un destino breve e glorioso e una fine violenta e sorda. L’uomo però non era come la moltitudine, era quello che i greci avrebbero definito un aristos, migliore per virtù e coraggio.
Sono passati 30 anni dalla morte di uno dei giornalisti più coraggiosi del nostro tempo, quando un articolo, un’inchiesta e una denuncia si pagavano con il sangue. Quel 5 gennaio del 1984, nell’Italia della “Milano da bere” socialista e nella Sicilia della “Palermo come Beirut”, l’uomo che con la sua penna aveva attaccato la mafia locale della provincia etnea di Nitto Santapaola, vassalla dei Corleonesi di Riina, veniva ucciso a bruciapelo dai sicari mafiosi.
Pippo Fava era un intellettuale, uno di quegli uomini con una marcia in più rispetto agli altri. Uno di quelli che nella Trinacria dell’omertà e del quieto vivere veniva definito “scassa minchia” perché ficcava il naso dove non doveva metterlo e perché pretendeva “con arroganza” che il pubblico sapesse dove si posava il suo fiuto di indagatore. Fiuto esatto. Perché Fava prima di essere l’intellettuale impegnato, il drammaturgo e il padre di Claudio, era un giornalista con la “G” maiuscola. Uno di quelli per cui il racconto della verità non ha compromessi, deve essere diffuso al solo padrone che è il lettore e vale di più di una vita umana. Non quella di altri, la propria.
Dopo aver mosso i primi passi nella professione come redattore de “L’Espresso Sera”, nella primavera del 1980 era diventato direttore del Giornale del Sud che, sotto la sua guida, aveva assunto i caratteri di coraggioso quotidiano alfiere di un manifesto consacrato “alla realizzazione di giustizia e libertà”. Il fiuto aveva trovato la droga, quella che, dopo le “bionde”, le sigarette, cominciava a inondare anche il catanese sotto il controllo del clan di Santapaola. Di lì le intimidazioni, poi il fallito attentato e il licenziamento. Un climax drammatico e discendente per volere di una delle tante cordate di imprenditori “avveduti” e con il “senso del business” in odore di affari con la mafia, che aveva preso il controllo del giornale.
Ma come gli eroi romantici che non si rassegnano ad un destino da gregari e che non sono mai domi, Pippo Fava non si arrese e fondò un mensile, “i Siciliani”. Doveva fare da solo ed essere indipendente, anche a costo di mandare avanti un quotidiano con due rotative di seconda mano, una cooperativa e una squadra di “carusi”, giovani, coraggiosi e inesperti che lo seguivano dai tempi del Giornale del Sud. Il secondo quotidiano antimafia della storia dell’isola faceva rumore nella terra dell’informazione tranquilla, dove il buon siciliano si mette giunco e lascia passare la tempesta. “Calati iuncu ca passa la china”.
Nella provincia “pulita da infiltrazioni mafiose” , “I Siciliani” rompeva le scatole con le inchieste e le forti denunce. Quelle contro i “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, i signorotti locali Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo, avevano disturbato un altro cavaliere del lavoro, Benedetto Santapaola detto “Nitto”. Fava però non si era fermato, era arrivato persino ad affermare in televisione da Enzo Biagi che i veri mafiosi stanno in Parlamento, “i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri”, “sono ai vertici della nazione”, sono i pilastri della società.
I cavalieri volevano domare l’eroe, comprandosi il giornale, la sua libertà e l’oblio della verità, ma l’eroe non cedette. Così ci avrebbe pensato il cavaliere del lavoro Nitto. Il 5 gennaio del 1984, cinque proiettili calibro 7,65 colpirono Fava alla nuca, mentre scendeva dalla sua Renault per andare a prendere il nipote che recitava la commedia “Pensaci, Giacomino!” al teatro Verga, nel cuore di Catania.
E nella Sicilia immobile e pirandelliana si trattava di una storia triste come tante altre, mentre nel capoluogo palermitano venivano spenti uno per uno i suoi figli migliori, sotto cariche di tritolo o crivellati dai proiettili. E come tanti altri la sua memoria subiva l’onta più grave della “macchina del fango”. Quella della pista passionale, oppure quella economica legata alle difficili condizioni finanziarie de “I Siciliani”. Nel frattempo le lingue benpensanti come l’onorevole Nino Drago si affrettavano a chiedere la chiusura delle indagini perché “altrimenti i cavalieri” avrebbero potuto “decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Del resto la Milano del Sud alle pendici dell’Etna era “lontana dalla contaminazione mafiosa”. Solo nel 1998 la verità sarebbe venuta a galla con la conclusione del processo “Orsa Maggiore 3”, un lungo processo che nel 2003 avrebbe portato alla condanna all’ergastolo per il mandante Nitto Santapaola e per Aldo Ercolano, mentre Maurizio Avola veniva condannato a sette anni poi patteggiati.
Il 5 gennaio saranno passati trent’anni e una docufiction su Rai Tre porterà sugli schermi italiani una delle tante grandi e drammatiche storie della sua piccola provincia, tanto vicina al palazzo da farlo tremare ogni volta che se ne parla. Storie di uomini soli che combattevano la mafia, mentre questa dialogava con una parte dello stato.
Oggi, trent’anni dopo, alcuni dei nemici di Pippo Fava pagano le loro colpe in galera, la Sicilia è rimasta uguale, i suoi “carusi” hanno fatto strada, mentre un eroe dorme il sonno eterno dei giusti e rivive nella pesante eredità che ha lasciato.