Arriva da una terra vasta e paludosa del profondo sud e ha una voce inconfondibile, un timbro che è come una firma. Qualche tempo fa è sparito e nessuno sapeva che fine avesse fatto, quando ha fatto ritorno era cambiato: suonava il blues. Sì, questa storia l’avete già sentita da qualche parte; solo che non è della buonanima di Robert Johnson che stiamo parlando, e il profondo sud non si chiama Mississippi, ma Sulcis. Messa così potrebbe sembrare meno suggestiva e interessante, ma se lo pensate è solo perché il 9 marzo non eravate alla Vetreria di Cagliari a sentirlo suonare.
Classe 1987, Matteo Leone è originario di Calasetta, uno dei due comuni dell’arcipelago sulcitano (l’altro è Carloforte) in cui i cognomi e il dialetto (che si chiama “tabarchino”) non sono sardi ma discendono, tramite una storia lunga e travagliata, da Genova. Vedremo poi che questo dettaglio non è irrilevante. Formatosi come jazzista al Conservatorio di Cagliari, qualche anno fa deve avere fatto un brutto incontro su qualche strada sperduta nel nulla tra Calasetta e Sant’Antioco, e da allora niente è stato più lo stesso. Nel 2016 fonda i Don Leone insieme al partner in crime Donato Cherchi: un progetto di raw blues ruvido ed essenziale, che trova la sua dimensione ideale nelle esibizioni dal vivo. Dopo un solo anno di attività i due sono vincitori dell’Italian Blues Challenge e rappresentano l’Italia negli Stati Uniti e al festival europeo di Hell, Norvegia; nel 2018 sono sul palco dello Sziget Festival. Al momento l’unica pubblicazione a nome del duo è l’EP Welcome To South West (Talk About Records, 2017), ma nel frattempo è sbocciata anche una carriera solista, ed è tempo di gustarne i frutti.
Sale sul palco della Ex Vetreria di Pirri, gioiellino postindustriale nel cuore del capoluogo sardo, alle nove e mezza di sera; non c’è più un posto a sedere, e chi vi scrive è uno dei non pochi che sono rimasti in piedi. Insieme a lui, un ensemble di otto musicisti che si alternano sul palco per mettere in scena dal vivo il suo primo album solista fresco di pubblicazione, Scattered House Place (La Mansarda / Fast ‘n’ Loud Records, 2018). La scaletta ripercorre fedelmente quella del disco e la band è perfetta: preparazione impeccabile e grande affiatamento, per un’ora e mezzo di musica dove c’è posto per tanto blues, ovviamente, ma non solo. Il viaggio a ritroso di Matteo non è lineare né improntato alla ricerca di una sedicente purezza: è piuttosto un mosaico di tradizioni musicali, di questo e di quell’altro lato dell’oceano, in cui il blues rappresenta il pattern, la struttura portante.
Fanno capolino tra i solchi reminiscenze del gospel, del country, persino della surf music (la struggente chitarra di You Are Not Good Enough To Me), e i brani più tirati (The Jackal, Devil Knows My Name) rivelano influenze assai moderne e rumorose (dov’è che finisce il blues e cominciano lo stoner e l’heavy metal?). Ogni tanto, tra le armonie a stelle e strisce, sembra di intravedere scorci di Mediterraneo: un frammento di costa tunisina, un ricamo arabeggiante, la luce accecante del sole sulla Statale 126, il mare come ultima frontiera. Nel finale tutta la band è sulla scena (alla voce la cantautrice Claudia Aru, illustre ospite anche del disco) per Ain’t Got No Home, l’unica cover della serata, e forse non è un caso che sia un brano di Woody Guthrie: il padre del folk “made in USA“ è stato anche un crocevia vivente di influenze musicali bianche e nere, americane ed europee, ed è questa la strada che il nostro uomo sembra aver scelto.
Il momento dei bis lo conferma in modo inequivocabile: sono due inediti destinati a comparire nel prossimo album, hanno sonorità decisamente più mediterranee (pur mantenendo l’impianto blues) e sono cantate in “tabarchino”; considerato che la voce di Matteo ha una discreta somiglianza con quella di un certo cantautore genovese, la distanza tra la Highway 61 e Creuza de Mä non è mai stata così breve. Il viaggio tra le sponde dell’Atlantico alla fine sembra riportare a casa dopo un lungo giro, ma la mappa nel frattempo ha cambiato forma, i confini non sono più così netti come li ricordavamo: il pubblico è deliziato, e un lungo e meritatissimo applauso chiude la serata. Domani si torna sulla strada.
Fotografie di Paolo Piga © All rights reserved
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