[attenzione: contiene spoiler]
In qualche modo, i vampiri se la cavano sempre. Quando sembra che non ci sia più nulla da dire su di loro, arriva qualcuno che riesce a raccontarli con parole nuove, confermando una volta di più la loro paradossale vitalità letteraria. Spesso i risultati sono stucchevoli o facilmente dimenticabili, ma ogni tanto capita di imbattersi in opere che rendono il giusto onore al mito più seducente di ogni tempo. A me è successo al termine di questa estate – per quanto mi riguarda, è sempre l’estate il momento migliore per leggere storie di vampiri.
John Ajvide Lindqvist è nato a Blackeberg, sobborgo occidentale di Stoccolma, nel 1968. Ha lavorato a lungo come comico stand-up, prestigiatore e autore televisivo. Il suo romanzo d’esordio (l’unico che io abbia letto sinora) è uscito nel 2004; due anni dopo è stato pubblicato in Italia da Marsilio con il titolo Lasciami entrare, ed è senza dubbio la miglior storia di vampiri che abbia mai letto (Bram Stoker è escluso dalla competizione). È anche uno dei migliori libri che mi siano capitati tra le mani negli ultimi anni.
Il titolo originale (Låt den rätte komma in, “lascia entrare quello giusto”) è ovviamente un riferimento ad una delle caratteristiche classiche dei vampiri, cioè al fatto che possono entrare in una casa solo se invitati, ma è anche il titolo di una canzone di Morrissey, Let The Right One Slip In.
La storia si svolge a Stoccolma, e precisamente a Blackeberg, nel 1981, anno in cui l’autore aveva tredici anni. Anche senza conoscere la sua biografia, è evidente sin dalle prime pagine l’intento di raccontare una parte della propria giovinezza (nella nota posta dopo l’ultima pagina leggiamo che «tutto quello che ho scritto in questo romanzo è vero, anche se è successo in maniera diversa»): Lindqvist ci riesce trovando il giusto equilibrio tra il palpabile trasporto emotivo e la dovizia di dettagli necessaria a far immergere i lettori nel contesto. Il contesto è un tessuto sociale lacerato e intriso di povertà, degrado, alcolismo: non certo le prime parole che assoceremmo alla Svezia, che in genere vive nell’immaginario collettivo come sinonimo di efficienza e benessere.
Il protagonista è Oskar: figlio di genitori separati, vive con la madre ed è un dodicenne sovrappeso, impacciato, che tiene un pezzo di gommapiuma nelle mutande per nascondere gli eventuali effetti di una lieve incontinenza. Il bersaglio ideale per i bulli, che infatti lo tormentano senza pietà. Non è un modo di dire enfatico: tra i momenti più spaventosi di un libro che non ci risparmia nulla (mutilazioni, pedofilia, stupri, volti sfigurati dall’acido cloridrico, adolescenti che sniffano colla negli scantinati) ci sono quelli in cui Oskar viene preso di mira da dei ragazzi poco più grandi di lui. Se state pensando a It, in cui la vita quotidiana dei protagonisti era spesso più terrorizzante di Pennywise e delle sue varie incarnazioni, siete nella direzione giusta. Non a caso Lindqvist è stato soprannominato, con poca fantasia, “lo Stephen King scandinavo”.
A differenza dei ragazzi del Club dei Perdenti, che quantomeno potevano contare su sé stessi e sulla loro amicizia, Oskar vive in una solitudine deprimente. Anche i suoi pochi amici sembrano lontani, assenti, e di sicuro non sono in grado di difenderlo. Poi, nel palazzo accanto a quello in cui vive Oskar arriva una ragazza molto graziosa che si chiama Eli e che sembra sua coetanea, ma in realtà è al mondo da più di trecento anni. Ha un cattivo odore, come di marcio, ed esce solo la notte; sa fare salti prodigiosi, se ne sta serenamente sotto la neve con addosso una felpa leggera e riesce a vedere nel buio. Vive con Håkan, un uomo misterioso e sinistro che all’inizio Oskar identifica come suo padre, ma sembra disperatamente sola, proprio come lui.
In un modo strano e al tempo stesso del tutto naturale, è subito amore, per entrambi. Un poco alla volta, Oskar realizza che c’è davvero qualcosa di strano in quella ragazza, e alla fine scoprirà che in realtà non è davvero una ragazza, e che non lo era neppure prima di essere trasformata in vampiro. Lasciami entrare non è solo un horror crudo e senza speranza, né una desolata istantanea della società svedese sul finire del XX secolo: è anche la storia di due anime affini, intrappolate in due corpi che in teoria dovrebbero respingersi o distruggersi a vicenda. Più volte Oskar deve vincere la repulsione per Eli, che non è – come spesso sono rappresentati i vampiri nei film e nei romanzi – una creatura strana, ambigua e quindi affascinante: è davvero un mostro, uno scherzo della natura che lascia dietro di sé una lunga scia di sangue e lutti senza ricavarne alcun piacere.
Lindqvist è un maestro di equilibrio: affonda la lama sino al manico nello splatter puro e nell’horror psicologico, ma senza mai strafare o cercare il colpo a effetto per il gusto di sconvolgere; imbastisce una serie di sottotrame che si incastrano bene l’una nell’altra e che però non sono fredde e impersonali come ingranaggi di un macchinario, ma mantengono fino in fondo il loro carattere di accorate cronache della condizione umana; costruisce una sua mitologia personale e originale del vampiro senza stravolgere troppo la tradizione.
Ad esempio, il fatto che i vampiri non possono entrare in una casa senza invito qui è vero solo fino a un certo punto: se proprio vogliono possono farlo, ma il prezzo da pagare è provare un dolore terribile, sanguinare da tutti i pori della pelle e restare debilitati per diverso tempo. Così avviene anche per il bisogno di sangue, che viene spogliato da ogni sfumatura erotica e simbolica: è una fame inarrestabile, dolorosa e totalizzante, una dipendenza da cui non si può guarire. Nel corso dei giorni Oskar vede Eli cambiare più volte, e solo più avanti capirà che questo dipende da quanto tempo è passato dal suo ultimo pasto: il suo viso, un giorno paffuto e roseo, il giorno dopo diventa smunto e pallido, i capelli fluenti si fanno grigi e stopposi. Tutte le caratteristiche classiche del vampiro vengono rilette attraverso una lente specifica: quella della sofferenza. Essere un vampiro è un peso spaventoso, una condanna, un ergastolo da cui si esce solo con la morte.
Nell’ultima parte del libro, Eli ripensa all’unica volta in cui ha incontrato un suo simile, una donna ”adulta, cinica e falsa”.
Da lei Eli ebbe la risposta a una domanda che lo assillava da tempo.
«Siamo in tanti?»
La donna aveva scosso il capo e aveva detto con un’espressione teatralmente triste: «No. Siamo pochi, così pochi.»
«Perché?»
«Perché? Perché, ovviamente, la stragrande maggioranza di noi si toglie la vita. Devi capirlo. Sì, è un enooorme fardello.»
Negli stessi giorni in cui Eli e Oskar fanno amicizia, i sobborghi di Stoccolma sono scossi da omicidi crudeli: nei parchi vengono ritrovati cadaveri privi di sangue. Presto scopriremo che l’uomo misterioso che vive con Eli non è suo padre, ma un pedofilo ridotto a reietto della società che lei ha preso con sé e che va in cerca di sangue perché la sua salvatrice, svegliatasi di recente dopo un lungo sonno e non ancora nel pieno delle forze, possa nutrirsi.
È un romanzo corale, pieno di personaggi secondari che hanno però un grande peso, sia emotivo sia narrativo, all’interno della storia: un gruppo di derelitti sempre al verde e dediti all’alcool che frequenta un ristorante cinese; il padre di Oskar, che vive da solo da molti anni, amabile e simpatico ma solo fino a quando comincia a bere e si trasforma in un altro uomo che Oskar odia profondamente; il professor Avila, insegnante di origine portoghese che poco a poco si guadagna la fiducia di Oskar, forse l’unico adulto del romanzo a riuscire nell’impresa.
In alcuni momenti il romanzo sembra prendere una piega più prevedibile, rassicurante: in particolare, c’è un momento in cui Oskar trova il coraggio di affrontare i suoi persecutori (è evidente che è Eli ad ispirarlo: gli ha dato qualcosa per cui combattere) e ne ferisce uno all’orecchio, guadagnandosi gli sguardi ammirati dei suoi compagni di scuola. Sembra il punto in cui finalmente il protagonista compie un passo in avanti nel suo percorso di crescita, lasciandosi alle spalle il problema che sino a quel momento lo tormentava – ma Lindqvist ha saputo essere più originale di così.
I bulli tornano alla carica – Eli nel frattempo se n’è andata per non farsi scoprire dalla polizia, e Oskar è certo che non si rivedranno più – e lo trascinano sulla banchina della metro, tenendolo sospeso in avanti sino ad un attimo prima che passi il treno; dopo essersi ripreso dallo shock, Oskar cerca di vendicarsi a sua volta, scatenando la rappresaglia finale. I bulli portano i rinforzi – cioè i fratelli più grandi – nella piscina della scuola, e dopo aver tramortito il professor Avila si preparano a uccidere Oskar annegandolo.
Le cose andranno diversamente, l’acqua della piscina si tingerà di rosso e i giornali locali avranno un nuovo clamoroso fatto di sangue da raccontare. Anche nel finale l’autore sfrutta il tema vampiresco in maniera originale, come a ribadire per l’ennesima volta la sua visione del mondo: la ”seconda vita” concessa da un vampiro ad un essere umano non è un regalo nè un’opportunità, ma solo l’ultima occasione, l’estrema via di fuga da un mondo in cui non si riesce in alcun modo a trovare posto, nonostante tutti gli sforzi.
Almeno sino a che non sorge il sole, i vampiri se la cavano sempre. Quando sembra che non abbiano più niente da offrire, trovano un modo per parlarci di sè con parole nuove, e per catturare la nostra attenzione. Così vale anche per i vampiri del romanzo di Lindqvist, che sono martiri e aguzzini al tempo stesso e non hanno alcuna via d’uscita da questa loro doppia sorte. Sono costretti ad uccidere, come lo sono i predatori, e il sangue non dà loro alcuna gioia, ma solo un temporaneo sollievo; e sono condannati ad una solitudine infinita, che in molti casi li porta a preferire il suicidio. Anche se, almeno quanto a questo, forse Eli e Oskar hanno trovato un rimedio e sono ancora da qualche parte là fuori, nascosti nel buio.
[in copertina: fotogramma del film Let The Right One In, girato nel 2008 dal regista svedese Tomas Alfredson e sceneggiato dallo stesso Lindqvist; nel 2010 è uscito Let Me In, un remake di produzione statunitense, e nel 2022 una serie televisiva ispirata al romanzo, intitolata a sua volta Let The Right One In]