Vivendo e scrivendo nel pieno di una pandemia mondiale che sarà ricordata come la Grande Peste del XXI secolo – c’è da augurarselo, o vorrebbe dire che dopo è capitato di peggio – ed essendo autore di un’opera letteraria basata sull’espediente narrativo della pandemia mondiale, mi sono posto un problema che consideravo lontano e che il corso degli eventi ha avvicinato drammaticamente: il confronto, inevitabile per chi inventa una storia ambientata nel futuro prossimo, tra ciò che è immaginato e ciò che poi accade. In parole povere, mi viene da chiedermi se e quanto sono profeta.

Tutto è cominciato quando mi sono accorto di una coincidenza curiosa, che sono poi andato a verificare negli appunti. La “sindrome”, come la chiamo nei miei libri (non mi sono mai curato di inventare un nome scientifico), viene segnalata per la prima volta in Cina alla fine del 2019: il 1° aprile le autorità sanitarie dichiarano che la malattia ha raggiunto tutti gli adolescenti del pianeta. Le voci della cronologia di quel periodo recitano così:

6 gennaio ● la sindrome viene diagnosticata ufficialmente per la prima volta in Cina; nelle settimane successive le diagnosi si susseguono rapidissime in tutto il mondo e i ricercatori tentano una prima definizione della malattia

gennaio ● le fabbriche, gli ospedali, gli aeroporti e i porti chiudono o riducono fortemente le loro attività in tutto il mondo, a causa dei disordini e della mancanza di personale; in pochi mesi il traffico di merci e di persone sul pianeta è paralizzato, con gravi conseguenze sull’economia e sulla qualità della vita media in tutto il pianeta

febbraio ● prime segnalazioni di ragazzi colpiti dalla sindrome e scomparsi nel nulla; nei mesi successivi aumenteranno esponenzialmente e per più di dieci anni il numero di sparizioni resterà altissimo, per poi cominciare a diminuire a partire dalla prima metà degli anni ’30 (in particolare, dall’inaugurazione dei dormitori pubblici)

marzo ● prima ondata di attentati nelle principali città del Paese (soprattutto di tipo dinamitardo: le bombe esplodono prevalentemente in luoghi di aggregazione come mercati, chiese, stadi). Si ripeteranno a intervalli più o meno regolari sino a metà del decennio e poi, più sporadicamente, sino al 2035; questo sarà l’anno in cui gli atti di terrorismo diminuiranno sensibilmente rispetto all’anno precedente, e dal 2036 ci sarà una interruzione pressoché totale degli attentati

Queste cose le ho scritte tra il 2015 e il 2017, durante la stesura de Le case del sonno.

Ho trovato la coincidenza abbastanza inquietante, ma non strana: a parte aver azzeccato il periodo (e questa è semplice casualità), l’aver scelto a suo tempo la Cina dipendeva da una “ragionevolezza probabilistica”. Gli occidentali non ci pensano spesso ma sono minoranza nel mondo, e se si prende un essere umano a caso è più probabile che sia asiatico piuttosto che di un altro continente – e che sia cinese o indiano piuttosto che di un altro Paese asiatico, va da sé. Ci sono altre ragioni che rendono più plausibile la comparsa di un virus di origine animale in Asia anziché altrove (tra queste, se ho ben capito, gli animali vivi nei mercati), ma qui si va in profondità, ben oltre le intenzioni e le conoscenze che avevo quando ho scritto quelle “profezie”. Erano semplici appunti, scritti per avere dei riferimenti cronologici ed evitare errori nella costruzione dello scenario.

Incuriosito, ho messo su un confronto vero e proprio tra la malattia del mondo reale e quella che mi sono inventato, una specie di censimento di differenze & somiglianze: un giochino, di quelli a cui ti puoi dedicare quando hai tanto tempo libero a disposizione.

Le storie basate su epidemie sono tantissime e nella fantascienza apocalittica, ovviamente, proliferano. Alcune di queste storie fanno parte del mio bagaglio culturale e hanno di certo avuto un’influenza nel processo che mi ha portato a concepire Le case del sonno e poi gli altri libri della serie. Penso soprattutto al Saggio sulla cecità e a Children Of Men (il film; il libro non l’ho letto), ma potrei metterci anche 28 giorni dopo.

È inevitabile che nella fantascienza distopica si finisca per predire qualcosa di ciò che poi accade, dieci o duecento anni dopo: nulla di cui stupirsi – anche perché, se immaginiamo una malattia nel futuro lo facciamo tenendo conto, magari inconsciamente, di ciò che sappiamo delle epidemie del passato. Certe cose le ricalchiamo, altre le riportiamo in negativo, forse dicendoci “stavolta non andrà così, questo succederà in un altro modo”: nasce così il quadro composito dell’immaginazione, il tentativo di costruire mondi fantastici che abbiano una parvenza di complessità paragonabile a quella del mondo reale. Come per ogni vicenda umana, è normale che alcune cose si ripetano, altre siano in parte nuove o radicalmente diverse.

Il crollo economico l’ho indovinato, ma era troppo facile; l’esplosione dell’anarchia in tutto il mondo per ora no (forse è meglio aspettare a dirlo), ma d’altra parte c’è una differenza sostanziale tra le due malattie. La “mia” sindrome arriva in poco tempo a tutti gli adolescenti del pianeta e non c’è distanziamento sociale che possa impedirlo, né esiste cura o terapia in grado di mitigarne gli effetti, per cui è molto più devastante. Ecco, questa è una grande differenza: la nostra vera pandemia è contrastabile, a prezzo di sacrifici non di poco conto, e la risposta globale alla sua diffusione è un evento inedito nella storia dell’umanità (autosegregazione, interruzione di tutte le attività non necessarie, quarantena simultanea di intere popolazioni). La sindrome, nei miei libri, colpisce l’umanità senza che questa abbia nessuna possibilità di difendersi.

L’effetto “divisivo” dal punto anagrafico potrei dire di averlo in parte azzeccato, ma è una somiglianza soltanto sfumata e, per così dire, al rovescio. Nel caso della pandemia reale i vecchi sono più colpiti, più vulnerabili, mentre i giovani – per quanto ne sappiamo – nella maggioranza dei casi sono portatori inconsapevoli, o manifestano sintomi lievi; le caratteristiche della malattia, però, non consentono nemmeno di pensare a forme di segregazione sociale basate sull’età come quelle che io ho ipotizzato (il quartiere riservato agli ammalati che viene ribattezzato Ghetto; la discriminazione degli ammalati, che in alcune occasioni mi sono spinto a definire apartheid anagrafico). La sindrome, per di più, colpisce una fascia d’età ben definita e circoscritta (dai 12-13 ai 23-26 anni). L’età non è un fattore di rischio, ma una condanna: quasi tutti in quella fascia d’età si ammalano.

Il senso di diffidenza reciproca tra le persone, la paura del contatto, della condivisione di spazi pubblici: queste cose posso dire di averle indovinate, ma non sono forse caratteristiche tipiche di molte epidemie? O magari di tutte? Mi pare una caratterizzazione troppo vaga e generica per definirla una profezia, o anche solo una fantasia che si è fatta realtà.

Lo stesso discorso si può fare per altri aspetti secondari: ad esempio, l’atteggiamento ambivalente delle persone nei confronti della malattia, vista ora come una punizione ora come un modo per ripartire, ripensare ai propri errori e imparare qualcosa dal modo folle in cui il pianeta è stato gestito negli ultimi decenni (in una scena de Le case del sonno Annika racconta a Pandora di essere andata a trovare lo zio: lui le ha detto che la sindrome è stata «tutto sommato un bene», che ha scongiurato la Terza Guerra Mondiale, e pure la Quarta). Anche qui, penso che non sarebbe difficile trovare testimonianze di persone che hanno “ringraziato” o in qualche modo salutato con favore l’esplosione di una malattia (di solito succede a quelli che l’hanno scampata, e solo dopo che il pericolo è passato).

Per quanto riguarda gli effetti sul lungo periodo, è presto. Da quando ho cominciato a lavorare alla saga, più volte mi sono detto che nel futuro mi sarei guardato indietro in cerca di qualcosa, nei miei libri, che somigli al presente in cui vivrò tra dieci, vent’anni. Nel mio mondo di fantasia, la sindrome è cominciata da cinque mesi; una settimana fa ha raggiunto l’intero pianeta, e mai avrei pensato che in così poco tempo da quando ho scritto Le case del sonno ci saremmo trovati in una situazione in qualche modo simile. L’idea che la realtà sia sempre più imprevedibile dell’immaginazione, banale e trita come poche altre in “tempo di pace”, dimostra ancora una volta il suo essere pura verità nei momenti in cui la verità si fa più urgente.

Un’altra somiglianza che ho notato, con le relative differenze. Ne Le case del sonno, da diversi anni gli ammalati percepiscono quello che è a tutti gli effetti un reddito di cittadinanza (anche se limitato ad una fascia di cittadini, non a tutti), chiamato comunemente “sussidio”. In questi giorni di collasso economico dovuto al blocco di tanti settori produttivi, le proposte e le discussioni intorno alla possibilità di creare strumenti simili si stanno moltiplicando, in Italia e all’estero.

E ancora: la malattia diventa subito oggetto di teorie fantasiose e cospirazionismi di vario genere.

Quando è cominciata la sindrome pensavano fosse l’effetto di un esperimento militare o dei telefoni cellulari, e ancora oggi nessuno ha capito come si diffonde.

Comincia con la pubertà e scompare intorno ai venticinque anni, ci sono casi rarissimi di persone che guariscono quasi subito o che non l’hanno mai contratta […]. (Le case del sonno, p. 39)

Anche questa, come profezia, non era difficile da formulare: l’avvento del caos genera sempre una richiesta di ordine nelle coscienze, e poco importa se questo ordine poggia su dati, fatti e ricerche, o se invece è una costruzione di fantasia. L’ordine piace per la sensazione che trasmette, non per la sua aderenza con la realtà. La differenza tra il mio sogno e il mondo reale forse consiste in questo: quello che io ho immaginato è una malattia davvero implacabile. Non solo perché, come ho già scritto, non lascia scampo e la sua diffusione non può essere contenuta in alcun modo, ma anche perché a distanza più di trent’anni (quello che ho riportato sopra è un estratto dai pensieri di Annika durante il sonno, e il romanzo è ambientato nel 2052) non si è ancora riusciti a capire come faccia a trasmettersi.

È un’esagerazione voluta: difficile immaginare, visto l’attuale livello della scienza medica, che una malattia possa diffondersi senza che nessuno riesca a capire se si tratti di un virus, di un batterio, ecc. A costo di sacrificare la verosimiglianza, volevo rafforzare la sensazione di una caduta nell’anti-razionalismo, un precipitare inesorabile in un’epoca che non si fida più della scienza e nemmeno della conoscenza, ma che preferisce seguire gli istinti incontrollati, le impressioni, le simpatie, l’appoggiarsi ai propri bias cognitivi come se fossero sostegni anziché zavorre. Una rappresentazione del nostro mondo: esagerata, gonfiata, ma pensata per mostrare irrazionalità e assurdità che conosciamo bene perché ci conviviamo ogni giorno. Ne L’ultima estate, primo dei quattro prequel de Le case del sonno, il futuro padre di Annika (Georgeos, allora adolescente) dice: «Il mondo oggi è così. Contano le sensazioni, non la logica.»

Anche il rincorrersi di questioni filosofiche e teologiche del mio mondo immaginario somiglia a quello del nostro presente; persino in questo caso, però, mi sento di poter dire che si tratta di una caratteristica comune a qualunque epidemia – con la differenza che ai tempi della Morte Nera ci si ammassava nelle chiese a pregare spargendo il contagio, mentre oggi il capo dei cattolici annuncia in mondovisione che Dio non ha la bacchetta magica, e che insomma non si può pretendere che faccia chissà quale miracolo; a fine pandemia toccherà correggere il Credo, almeno nella parte in cui fa riferimento all’onnipotenza.

Sempre a p. 39 de Le case del sonno, Annika racconta:

Molti credevano che fosse una specie di castigo divino, infatti negli anni Venti c’erano un sacco di gruppi religiosi che annunciavano l’apocalisse e praticavano l’adorazione dei dormienti, cose così.

Forse – e non è un pensiero piacevole – ciò che ho immaginato nei miei libri e che somiglia di più al mondo reale è la facilità con cui, in tempo di pandemia, i diritti civili possono diventare superflui, secondari; il meccanismo subdolo che facendo leva sull’emergenza trasforma l’inaccettabile in quotidiano, spostando più in là l’asticella di ciò che è possibile negare o violare. Anche in questo caso, però, temo di non poter rivendicare chissà quale intuito o capacità di analisi, né tantomeno qualità profetiche di alcun genere. Solo un po’ di banale memoria storica.

Appunti per Le case del sonno, 9 aprile 2020. In copertina: La mappa della città (dettaglio)

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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