Pietro Bartolo è il medico chirurgo di Lampedusa, responsabile dal 1993 del presidio sanitario e del poliambulatorio dell’Isola. Protagonista del film documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che nel febbraio 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
Mi colpisce immediatamente il suo sguardo buono e umile. Gli occhi non mentono. E gli occhi che vedo, gli occhi che ho di fronte sono quelli di un uomo stanco, che ne ha viste davvero tante, che ogni mattina si alza e lotta per salvare migliaia di vite.
Ma lui non vuole essere chiamato eroe. Dice che è un medico che fa il suo dovere, quello che dovremmo fare tutti: dare una mano a chi te la chiede. “Io faccio semplicemente quello che è giusto fare, né più né meno”.
Non perde neanche un attimo e inizia subito, ancora zaino in spalla, a raccontare di quando gli hanno fatto una fotografia mentre toccava una barca. Barca in cui sono morti venticinque ragazzi. Si ferma e chiede scusa, con grande umiltà, per quello che sta raccontando. Spera che non disturbi gli ascoltatori sentire queste notizie, ma lui sente il dovere di raccontare al mondo quello che succede a Lampedusa. La tragedia che ogni giorno vive e soprattutto vede negli occhi delle persone che arrivano nell’Isola in condizioni disumane. Persone che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla povertà e dalla disgrazia. Fuggono per dare un futuro migliore ai propri figli e anche a se stessi, ma a volte nelle acque del Mediterraneo incontrano la morte. Una morte atroce.
Poi accenna a Favour, la piccola di nove mesi del Mali rimasta orfana durante la traversata, e gli occhi si fanno ancor più tristi. Racconta di quando l’ha salvata lo scorso 25 maggio e del desiderio di tenerla con sé, della volontà di adottarla. Volontà non soddisfatta. Favour è stata infatti adottata da un’altra famiglia. Lieto fine per una storia iniziata nella tragedia.
Prima di continuare a narrare della tragedia che vede ogni giorno ci tiene a precisare che lui non parla di clandestini. E qui la voce si rompe. Un attimo di silenzio. L’emozione forte e gli occhi pieni di rabbia e lacrime. Riprende il discorso specificando che non parla di clandestini, ma parla di esseri umani, di persone con gambe e braccia che soffrono e che hanno bisogno di cure.
Torna a parlare della mamma di Favour e di quei venticinque ragazzi morti nella barca della fotografia di cui parlava prima e accenna ad una strana malattia di cui noi, che queste tragedie le guardiamo alla televisione sul nostro comodo divano, non abbiamo alcuna conoscenza. La chiama “la malattia del gommone” e spiega che è la principale causa di decesso dei migranti. Questa malattia è molto semplice da spiegare. Praticamente le persone, alla partenza, vengono stipate in barconi come sardine (effettivamente quelle sono barche da pesca e non per trasportare esseri umani, senza finestre e senza uno spiraglio di luce) e accanto a loro vengono messe cinque o sei taniche di benzina per affrontare il viaggio. Benzina che, per mancanza di mezzi semplicissimi come un imbuto, durante il rifornimento, cade dentro la barca e va a mescolarsi con l’acqua che è entrata durante la traversata andando a formare una miscela mortale. Benzina e acqua: una miscela che impregna i vestiti e la pelle delle persone che, se non muoiono di asfissia, arrivano a Lampedusa ustionate e con piaghe spesso mortali.
Il viaggio nella tragedia procede raccontando altri episodi che lo hanno segnato come medico e come uomo. Questa volta le protagoniste sono due donne giovanissime.
Parla di una donna che ha partorito dentro al barcone e che non è riuscita ad affrontare il viaggio. È arrivata morta a Lampedusa. Aveva ancora il cordone ombelicale attaccato alla sua bambina, anche lei morta.
Con lo sguardo perso nel vuoto dice che le ha volute lasciare così. Le ha messe nella bara così. Per farle stare insieme per l’eternità. E mentre lo racconta mostra una fotografia con circa trecento bare scure, tranne una che è bianca: la loro.
L’altra donna di cui parla, invece, è entrata in travaglio durante il viaggio per Lampedusa. Lei però non ha partorito nel barcone, perché era così affollato che non aveva nemmeno lo spazio per aprire le gambe e mettere al mondo la sua bambina. Arriva nella notte a Lampedusa e il dottor Bartolo interviene immediatamente. Questa volta c’è un lieto fine. La bambina nasce e la mamma sopravvive all’operazione. Ad attendere mamma e figlia nella notte, dopo tante ore di intervento, erano presenti le signore di Lampedusa che si erano mobilitate portando vestitini e giocattoli per la piccola.
Forse per portare un po’ di normalità dove regna solo il dramma e la morte.
Dopo aver ascoltato questa testimonianza come si può restare inermi?
L’umiltà e la grandezza di questo uomo sono immense. Dovrebbero esserci più persone così e soprattutto l’aiuto politico di cui necessita dovrebbe essergli fornito e garantito.
Emerge da questo racconto una grande umanità che si auspica possa essere più diffusa tanto da influenzare il mondo politico affinché possa intervenire fornendo aiuto a questi uomini e donne in prima linea.
Per quanto chieda di non essere identificato con questa parola, è di eroismo che siamo tentati di parlare.