Nadine Shah, la cantautrice rivelazione del 2013 con l’album d’esordio Love Your Dum and Mad, a Milano per l’unica data italiana del suo tour europeo, è stata protagonista domenica di un live intenso ed estremamente intimo, complice la piccola ma accogliente sala del 75beat: “il posto più strano in cui abbia mai suonato – ha affermato Nadine, che nel pomeriggio all’arrivo in loco, causa assenza insegne (effettivamente il locale è difficilmente riconoscibile, ma chi dice che sia un male), aveva temuto in un dirottamento ad opera del tassista – ma mi piace, riesco a vedere le vostre facce”.

Incensato da pubblico e critica l’album, uscito il 22 luglio scorso via Apollo Records (sussidiaria di R&S, etichetta belga sotto la direzione artistica di James Blake) e prodotto da Ben Hillier (Blur, Depeche Mode), coautore dei pezzi assieme a Nadine, raccoglie undici tracce dal sapore lunare, nelle quali all’alternative rock delle conterranee PJ Harvey e Anna Calvi, vicinissime alla Shah anche per vocalità, s’intrecciano le atmosfere dark di Nick Cave e quelle trasognate e minimali di Agnes Obel e Antony Hegarty. Formazione classica, visione musicale a 360° e una spolverata jazzy qua e là, rintracciabile soprattutto nel trattamento della parte vocale, fanno il resto nel caratterizzare il sound della cantautrice di Whitburn (Newcastle), un unicum nell’odierno panorama del cantautorato alternative.

Pete Jobson, bassista della band di Nadine e tenebroso cantautore, stilisticamente accostabile a colossi del calibro di Tom Waits e Leonard Cohen, “ma più figo”, come nel ringraziarlo ha notato Nadine, tra il pubblico durante la perfomance, ha aperto le danze con una tripletta di pezzi suonati piano e voce, insinuando in sala la giusta misura di oscurità e sentimento che andranno caratterizzando il resto della serata.

Il set di Nadine, look total black (come gli altri componenti della band) e capelli ordinatamente raccolti in uno chignon, ha inizio, senza soluzione di continuità, subito dopo quello del collega e compagno di viaggio Jobson. Un’ora e mezza di live, intensa ed elegante, che ha reso alla perfezione le atmosfere scure di un album che parla di perdita, abbandono e rimorso, confrontandosi con il tema difficile della salute mentale e durante la stesura del quale due intimi amici della cantautrice – uno di essi, Matthew Stephens-Scott, autore degli interessanti dipinti utilizzati per l’artwork del disco – si sono tolti la vita: “l’album – racconterà Nadine fermatasi a lungo dopo lo show a parlare con i fan – riguarda in grandissima parte queste due persone”.

Una scaletta di soli dieci pezzi, che sorprende per l’estrema varietà di registri che Nadine Shah è in grado di utilizzare senza smarrire la propria cifra stilistica. Si va dalla scrittura pregevole e delicata di Dreary Town e Folating, eseguite in apertura, attraverso la stridente violenza di Aching Bones, fino all’arrangiamento scarno di All I Want, che lascia agio all’incredibile voce dell’artista di esprimersi, tirandone fuori in particolare le sfumature jazzy. E poi ci sono le solide ballate rock The Devil e To Be A Young Man, che l’avvicinano splendidamente a Nick Cave, PJ Harvey e per scrittura, almeno nel secondo caso, al compianto Jeff Buckley e il grunge dalle tinte fosche del b-side Never Tell Me Mam. Anche la cover di Blue di Dennis Hopper Choppers si permea di una caratteristica patina di oscura sensualità, assente nell’originale, così come lo standard jazz Cry Me A River suonato in chiusura piano e voce – quella voce che, quando pensi di aver sentito tutto, ti lascia a bocca aperta arrivando dove mai ci si aspetterebbe in termini di potenza e controllo – da Nadine sola sul palco.

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