Gli Stati Uniti dei primi anni Sessanta sono terra di dominio incontrastato dei Beach Boys e delle loro melodie festose, rigorosamente disimpegnate. Subito dopo ci saranno la british invasion, il Vietnam, la pazzia di Brian Wilson, e la storia dei “ragazzi da spiaggia” si farà drammatica, tra strazianti odi alla giovinezza perduta (Pet Sounds) e album abortiti misteriosamente (Smile). All’inizio, però, i cinque di Hawthorne sono il simbolo di un’America giovane e sorridente. Sul trono del pop surf, accanto a loro, c’è un duo di cantanti losangelini dalle voci straordinarie: Jan & Dean.

William Jan Berry (classe 1941) è la mente creativa: scrive le musiche e i testi, disegna i contorni di un mondo perfetto fatto di spiagge assolate, avvenenti California girls e macchine veloci. Dean Ormsby Torrence (1940) è il volto da copertina del duo: biondo e prestante, un autentico figlio del Golden State, privo di talento compositivo ma molto dotato come cantante (è ospite, come voce solista, nella celebre Barbara Ann dei Beach Boys). I due sono amici d’infanzia: frequentano la Emerson Junior High School di Westwood e sono compagni nella squadra di football.

Dopo varie esperienze giovanili (prima la band dei The Barons, poi il duo Jan & Arnie, formato da Berry con il compagno di scuola Arnold Ginzburg), nel 1959 nasce la ragione sociale che li porterà alla fama, da principio come coppia di cantanti doo-wop. Prodotti da Lou Adler (futuro ideatore del Monterey Pop Festival) e Herb Alpert, riescono subito a piazzare un singolo in classifica (Baby Talk, al decimo posto) e cominciano la loro attività live. Berry scrive a ritmi sostenuti, sia per il duo che per altri interpreti. Nonostante gli impegni artistici, sia lui che Dean proseguono gli studi, si diplomano al college e si iscrivono all’università: il primo in medicina alla UCLA, il secondo in architettura alla USC.

Dall’esordio al 1962 ottengono un buon successo (14 singoli e due LP pubblicati), ma la svolta della loro carriera è rappresentata dall’incontro con i Beach Boys. Nei due anni successivi, stimolata dall’immaginario surf, la creatività di Berry esplode e conduce a risultati entusiasmanti: sedici singoli nelle Top40 di Billboard e Cash Box, nel firmamento del pop a stelle e strisce compare una nuova stella. Berry e Wilson diventano amici e scrivono insieme una dozzina di brani, alcuni dei quali finiscono negli LP dei Beach Boys e altri in quelli di Jan & Dean: tra questi, la hit #1 Surf City.

Jan & Dean

È qui che comincia l’inquietante percorso parallelo di Brian Wilson e Jan Berry e, di conseguenza, quello delle loro band. Il genio di Wilson, sino ad allora votato alla celebrazione dell’estate e dell’amore, si macchia di colori cupi e malinconici. Di lì a poco, il bassista si rinchiude in studio per un anno a scrivere il suo capolavoro, Pet Sounds: uno sforzo che lo prosciuga completamente fino a farlo scivolare nella pazzia. Intorno a lui succede di tutto: la band è tormentata dalle tensioni interne, il consumo di droga sale sopra i livelli di guardia e il fratello di Brian, Dennis, stringe amicizia con un bizzarro personaggio che alla fine del decennio farà parlare molto di sé: Charles M. Manson. La perfetta nemesi della endless summer.

E Jan Berry? Anche il suo immaginario si riempie di tinte oscure e sentimenti contraddittori (scrive testi di stucchevole patriottismo, come Only a Boy, e altri smaccatamente pacifisti), con in più una spaventosa vena profetica. Nel 1964 licenzia Dead Man’s Curve, splendida sinfonia pop ed ennesimo successo commerciale del duo. Il testo è la memoria di un uomo che racconta la sua ultima ora: la sfida in auto con uno sconosciuto, l’incidente e la morte. Jan descrive nel dettaglio la corsa (la macchina del narratore è una Corvette Stingray, realmente posseduta da Berry a quel tempo e più volte citata nelle sue canzoni; quella dello sfidante invece è la Jaguar XKE di Roger Christian, coautore del testo) e la strada su cui si svolge. In America dead man’s curve è l’appellativo dato ai tornanti pericolosi, noti per aver provocato incidenti letali: nella canzone Berry indica con questo nome una curva della Sunset Strip (il tratto del Sunset Boulevard che va da Hollywood a Beverly Hills). Roger Christian avrebbe voluto far terminare la gara in pareggio ma Jan si impunta: Dead Man’s Curve deve concludersi tragicamente.

jan berry

Il 12 aprile del 1966, dopo un sorpasso azzardato, la Stingray di Berry si schianta a gran velocità contro un camion parcheggiato in una strada di Beverly Hills: non nella “sua” dead man’s curve, ma poche miglia più a sud. Berry viene estratto dalle lamiere e sopravvive dopo settimane di coma: riporterà danni cerebrali permanenti, tra cui una parziale paralisi del lato destro del corpo. Ha da poco compiuto 25 anni.

Dean Torrence è rimasto solo. Mentre l’amico giace in un letto d’ospedale, raduna un gruppo di amici con l’idea di registrare un concept: un disco a tema sulla pioggia, con alcuni brani inediti e molte cover. Dean non scrive né suona una sola nota: produce il disco, disegna la copertina, è la voce solista di tutti i brani. Il risultato è lo struggente Save For A Rainy Day: un disco fantasma registrato in una traccia mono a dir poco precaria e distribuito in sole 1500 copie. Chiaramente influenzato da Pet Sounds, il piccolo progetto di Dean è l’orazione funebre ideale dell’estate californiana, annegata in un nostalgico acquazzone autunnale. Come tributo all’amico ferito, Torrence attribuisce il disco al duo Jan & Dean, sebbene Berry non vi abbia partecipato.

Nel luglio del 1966 Jan Berry esce dall’ospedale e inizia una lunga, dolorosa convalescenza. Nonostante sia ancora gravemente lesionato e non riesca a cantare per più di qualche secondo di fila, torna caparbio sul progetto a cui stava lavorando prima dell’incidente: Carnival of Sound. Doveva essere la definitiva consacrazione del suo talento, l’album che avrebbe unito in un unico “carnevale di suono” la stagione del primo rock’n’roll e la psichedelia emergente in quegli anni. Oltre ai brani inediti, il disco avrebbe dovuto ospitare diverse cover d’annata (tra cui i classici In the Still of the Night e Louisiana Man), a testimonianza dell’amore mai sopito di Jan per il rock’n’roll e il soul anni Cinquanta.

Berry lotta strenuamente per tornare alla normalità; si dispera, strilla nel microfono, si abbandona più volte a crisi di autolesionismo; lavora con cura maniacale agli arrangiamenti, soprattutto quelli vocali; scrive testi pieni di ottimismo e gioia di vivere, in aperto conflitto con il suo stato fisico e mentale; recluta i musicisti che dovranno interpretare le sue canzoni e riesce a farle registrare, seppur solo in versioni provvisorie. Alla fine getta la spugna: il progetto Carnival Of Sound naufraga nel 1968 durante la post-produzione, senza che l’autore sia riuscito a dargli una forma definitiva. Sarebbe dovuto uscire a nome di Jan & Dean, anche se in questo caso è Torrence a non essere coinvolto nella lavorazione: invece subisce la stessa sorte del suo “gemello” Save For A Rainy Day.

La storia del duo finisce qui: con grande difficoltà Berry riuscirà a tornare sul palco solo nel 1978 insieme a Torrence, nel frattempo diventato un grafico di successo (suo il celebre logo dei Chicago; durante la sua carriera ha ottenuto un Grammy Award e tre nomination per la migliore copertina). Nello stesso anno la CBS trasmette un film per la tv sulla loro storia, e negli anni successivi i due torneranno a suonare dal vivo con regolarità, anche collaborando con altri musicisti (tra i quali i Beach Boys Mike Love e Bruce Johnston). I due dischi fantasma circolano tra gli appassionati in poche copie artigianali e con il passare degli anni diventano una piccola leggenda, il mistero più oscuro del pop americano.

Se Save For A Rainy Day, con la sua coerenza narrativa e la sua ingenua meraviglia nel mostrare il lato freddo e triste della California, è la risposta naïf a Pet Sounds, Carnival Of Sound ha molti tratti in comune con Smile: un disco “totale” e rivoluzionario nelle intenzioni, in realtà tanto ardito e ambizioso da annichilire il suo stesso autore. Ad innescare la distruzione, nel caso di Wilson, è stata la follia (stimolata dall’abuso di droghe), mentre per Berry è decisivo l’incidente stradale, ma il risultato è il medesimo.

L’oblio calato su Jan & Dean nei decenni seguenti è pressoché totale. Solo nel 1996 la Sundazed Records ha recuperato i nastri di Save For A Rainy Day e ne ha curato una nuova edizione, arricchita da diverse takes alternative dei brani (soprattutto strumentali e stereo). Riportare alla luce Carnival Of Sound sembrava più difficile. Il disco di Torrence, se pure mai distribuito, era fatto e finito, tant’è che è stato possibile rieditarlo con le tracce nella sequenza a suo tempo voluta dall’autore, e con la sua copertina originale. L’album di Berry, invece, era ancora una bozza: non si sa quali e quanti brani dovessero comporlo, in che ordine, se le tracce registrate fossero definitive o meno.

Nel 2004 Jan Berry è morto dopo anni di sofferenze dovute all’incidente: era lecito pensare che Carnival Of Sound sarebbe rimasto sepolto insieme a lui. Invece, sei anni più tardi, la Rhino ha dato alle stampe un’edizione speciale del disco: tracce rimasterizzate, bonus a volontà e una nuova copertina realizzata appositamente da Torrence, l’ultimo omaggio all’amico scomparso. La scaletta è stata ricostruita su base ipotetica dal produttore Andrew Sandoval (specialista in simili imprese di recupero di album storici), che in tre anni di lavoro ha compiuto una vera e propria opera di “archeologia musicale”, rimettendo insieme i cocci di un disco mai nato.

È impossibile sapere quanto la nuova edizione sia riuscita ad avvicinarsi al progetto che Berry aveva in mente, ma l’ascolto consente di intuire il grande potenziale, in gran parte inespresso, del suo autore: tra cori rétro, inserti di sitar e arrangiamenti spesso in bilico tra l’orchestrale e la sperimentazione, il disco è davvero un carnevale di suoni, una sfilata di maschere stralunate e malinconiche, nostalgiche e innovative allo stesso tempo; visto con il senno di poi, un possibile salto in avanti per la musica pop, o una piccola rivoluzione sognata e mai messa in atto. La sua storia di capolavoro incompiuto è il più vivido ritratto della California luccicante e libera dei primi anni Sessanta, che esisteva solo nella fantasia di un misconosciuto genio del pop.

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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