Ciao Melissa, ti va di presentarti ai lettori del Malpensante?

Ciao, lettrici e lettori de Il Malpensante! Sono Melissa, vengo dalla provincia di Firenze (anche se le provenienze di famiglia sono tutt’altro che toscane, tra Svizzera, Sardegna, Austria e Veneto) e sono una traduttrice con una grande passione per la fotografia analogica.

Come ti sei avvicinata alla fotografia?

Fin da bambina l’arte mi ha sempre affascinato. Mio padre è un ritrattista di strada e, sebbene sia stata più che altro mia madre a insegnarmi ad esprimermi artisticamente, qualche influenza l’ha avuta anche lui. Nel 2010 ho frequentato un’accademia di disegno e pittura – disegnavo tantissimo in quegli anni -, ma poi ho preso una strada diversa con l’università e ho finito per abbandonare questo medium. Dopo la laurea nel 2018 ho avuto un momento di crisi esistenziale (strano, eh!) e ho sentito il bisogno di fare qualcosa di tangibile, di artistico, qualcosa con cui esprimere quello che avevo dentro, qualcosa che mi impegnasse senza le distrazioni tipiche della tecnologia moderna; così ho comprato una piccola telemetro analogica a pochi soldi e ho iniziato a esplorare questo nuovo vecchio mondo.

Sei un’amante dell’analogico, curi le foto interamente dal rullino allo sviluppo, e hai una predilezione per il bianco e nero. Ti va di parlarci di questo processo? Come mai questa scelta così do it yourself?  Una volta sviluppata la pellicola poi, quale canale scegli per far vedere le tue foto?

All’inizio scattavo a colori e affidavo i rullini a terzi per lo sviluppo; dopo qualche mese ho deciso di provare il bianco e nero e me ne sono innamorata. Più prendevo dimestichezza con la fotocamera, più sentivo l’esigenza di imparare a sviluppare e gestire l’intero processo fotografico: esposizione, sviluppo e digitalizzazione (di quest’ultima mi occupavo già personalmente). Volevo sentire quelle creazioni come qualcosa di interamente mio, essendo la fotografia per me un processo altamente introspettivo. Ho imparato le basi dello sviluppo e della stampa nel 2019, grazie a un corso curato dal fotografo Filippo Bardazzi.

Mentre sviluppo ascolto musica o guardo documentari e quando arriva il momento di appendere i negativi ad asciugare sono sempre super emozionata, non vedo l’ora di analizzare i risultati!

C’è anche una novità recentissima: ho appena costruito una vera e propria camera oscura in casa e a breve inizierò a stampare su carta! Digitalizzare i negativi mi piace, ma l’emozione della stampa è tutta un’altra storia.

Per quanto riguarda il mio canale di pubblicazione, è Instagram. Lì, ho connesso con fotograf* analogic* (amatoriali e non) di tutto il mondo e con molt* di ess* ho costruito dei solidi rapporti di amicizia. Per il futuro ho in mente di creare anche un sito web personale, ma ogni cosa a suo tempo.

Oggi, con i social, la fotografia è abbastanza lontana dai metodi classici di pensarla. Tu in che rapporti sei con il digitale? E con i social?

La fotografia è un medium in continua evoluzione. Quando venne creata, fu oggetto di grandi critiche ed era vista come un’arte di seconda classe; vi era inoltre il timore che, col tempo, avrebbe annullato la figura del pittore. È così che nasce, in opposizione ai metodi classici della raffigurazione, diventando gradualmente un processo alla portata di tutti.

Con la globalizzazione, internet, il digitale e tutti quei fattori che ci hanno uniti sempre di più e che hanno creato i nuovi concetti di immediatezza e gratificazione istantanea, non mi meraviglia che siamo arrivati, oggi, ai social network e ad un bombardamento incontrollabile di informazioni.

A volte mi capita di fotografare cose con uno smartphone, ma non ho mai usato una fotocamera digitale come si deve. Non sono una purista di quell* che “viva l’analogico, abbasso il digitale!”, trovo che entrambi abbiano i loro pro e contro e nel caso del digitale c’è sicuramente un grande vantaggio a livello ecologico.

Per quanto riguarda i social c’è poco da fare, fanno parte di noi, io credo che il trucco sia trovare un equilibrio e non lasciare che la nostra vita sia dettata da essi, dobbiamo tenere in mente che quello che vediamo è quello che ci vogliono far vedere. Ricordiamoci che anche quando guardiamo una fotografia non guardiamo “la realtà”, bensì una porzione filtrata di essa, scelta accuratamente dalla persona che l’ha scattata: è lei a scegliere cosa vedremo e cosa non vedremo, quali soggetti far interagire tra di loro e quali invece verranno isolati.

Consiglio anche di non valutare l’arte solo in base a quello che si vede sui social, sono sì delle piattaforme con una notevole influenza sul grande pubblico, ma c’è un miscuglio incredibile di informazioni e credo che ogni tanto sfogliarsi un buon libro di fotografia o leggersi qualche rivista dedicata, come questa, sia un ottimo modo di bilanciare il tutto.

Quali sono i tuoi soggetti preferiti? Cosa fotografi più volentieri e cosa proprio non vuoi o non ce la fai a catturare?

A questa domanda rispondo semplicemente che non ho dei soggetti preferiti. Seguo quello che sento ed esistono situazioni e luoghi in cui sento qualcosa di più rispetto ad altri. Per quanto riguarda quello che non voglio catturare, sicuramente non ho intenzione di scattare ritratti che riducano la donna a un mero oggetto sessuale, ma non significa che non ce la farei. 😉

Nelle tue fotografie ricorre molto spesso l’assenza di figure centrali umane o animate, prediligi i luoghi vuoti ai quali, spesso, alterni autoscatti. Come tradurresti in parole questo tuo linguaggio fotografico?

Il mio linguaggio fotografico è un po’ uno specchio della mia anima. Di base sono una persona molto solitaria, ma ci sono momenti in cui amo il contatto con il prossimo. Credo che questo si rifletta sulle mie scelte quando scatto. Quando sono fuori osservo tutto, poi rientro nelle mie stanze e rifletto, leggo, mi documento, metto in discussione i miei principi e i miei valori e porto avanti una continua evoluzione di me stessa e di come vedo il mondo. Ecco, direi che nella mia fotografia vi è una grande ricerca esistenziale.

Gli autoritratti sono iniziati durante il primo lockdown a marzo, un po’ per sfida personale, un po’ per passare il tempo. Credo sia importante parlare di come l’immagine che abbiamo di noi stess* influenzi la nostra vita e di come spesso differisca dall’impressione che il mondo esterno ha di noi. Gli autoritratti per me sono terapeutici, ci sono alcune caratteristiche di me che ho difficoltà ad accettare e metterle là fuori mi aiuta a vederle con prospettive diverse; inoltre, uno dei miei obiettivi è condividere immagini di persone come me, diverse dagli standard sociali e culturali che ci mettono sempre in discussione e ci fanno sentire inadatt* nonostante rappresentino soltanto una piccola parte del mondo, che è estremamente vario, ma che purtroppo non viene rappresentato nella sua interezza.

Spesso in fotografia si associa, erroneamente, la donna al soggetto fotografico. Cosa significa invece per te essere una fotografa? Cosa pensi quando leggi di “fotografia al femminile”? Credi che la società si aspetti qualcosa di particolare?

Più che “erroneamente” mi verrebbe da dire “purtroppo”. Quando le persone mi dicono che non è giusto dare delle etichette, io rispondo sempre che prima di poter pretendere l’uguaglianza bisogna che quella cosa, quel concetto, quella minoranza (qualunque sia) abbia un nome, che se ne parli, che la gente se ne ricordi al di fuori dei luoghi comuni dettati dall’ignoranza o da certi modi di fare politica. Se non si riconosce una situazione, come si fa a cambiarla? Soprattutto quando si tratta di categorie che vengono palesemente ignorate (comprese le donne, specialmente in ambito lavorativo). Non sono cose che si cambiano dall’oggi al domani. La società civile, con i suoi ruoli ben prefissati, si aspetta molto sia dagli uomini che dalle donne, poi ci sono anche le minoranze che non rientrano in nessuna delle due categorie, e quelle non le considera quasi nessuno!

Per me essere fotografa non ha niente a che vedere con l’essere o meno donna, ma quando c’è da lottare per una causa o un’identità, lotto. Oltretutto, sono abbastanza gender fluid oltre che queer e credo fermamente nell’importanza di riconoscere determinate categorie al fine di garantirne i diritti.

Nel mondo della fotografia, la maggior parte delle amicizie le ho con uomini e devo dire che mi trovo bene. Ovviamente ci sono quei 5 o 6 mansplainer che con i loro monologhi autocelebrativi o impositivi mi fanno grande tristezza (nel senso che mi fanno pena), ma non mi sono mai sentita inferiore a nessuno per essere nata biologicamente donna.

Sempre parlando di società…durante il primo lockdown sei stata protagonista di un progetto fotografico in tandem. Ti va di parlarcene?

Certo! Il progetto è A roll of 35mm film with Alek and Melissa. Era aprile e io e Aleksandar, un mio amico della Macedonia del Nord, stavamo parlando di quanto ci mancasse l’ispirazione creativa in quel momento così particolare. All’improvviso ci è venuta l’idea: un progetto in tandem, qualcosa che risvegliasse un po’ quegli animi arresi. In poco tempo abbiamo stilato una lista di 27 cose da fotografare in casa e nelle immediate vicinanze: dal libro preferito a un’ombra, da un oggetto rotto alla colazione; poi abbiamo sviluppato i rullini e digitalizzato gli scatti per confrontarli; ecco, quello è stato il momento più bello, è stato emozionante mettere a confronto le nostre scelte.

Abbiamo poi condiviso il progetto su Instagram, perché volevamo trasmettere questo ritrovato entusiasmo a tutt*! Poco dopo sono stata contattata da un blog di fotografia analogica per ripubblicare il progetto insieme a un articolo, poi da un collettivo fotografico universitario di Xanthi, in Grecia, che mi ha chiesto se potevano prendere in prestito l’idea per farne un progetto loro, incorporando anche alcuni dei nostri scatti. È stato bello ricevere così tanti feedback, e io e Aleksandar abbiamo in mente di collaborare nuovamente in futuro.

Secondo te, alla luce del secondo lockdown, questa volta più soft, sarà cambiato qualcosa? Fotograficamente come hai vissuto questi periodi di chiusura?

Io credo che non cambierà nulla. L’essere umano si è rivelato per quello che già era, a mio avviso. Personalmente, i periodi di chiusura li conosco bene, per motivi di salute negli ultimi sei anni mi sono isolata parecchio dal mondo esterno. Diciamo che l’impatto che il lockdown ha su di me è un’estensione di quello che già vivevo a livello individuale, anche se si è aggiunto un certo timore di nuocere al prossimo, che prima non era nullo ma sicuramente minore. L’idea cinica che avevo del mondo è rimasta la stessa, ma voglio anche sottolineare che ci sono tante persone che reputo valide e con cui vale la pena lottare per un mondo migliore! La mia fotografia è mutata solo geograficamente, continuo a fotografare seguendo i miei sentimenti e sfruttando quello che ho a disposizione.

Credi che abbia senso oggi parlare di scena fotografica? E se sì, credi di farne parte?

Credo abbia più senso, per me, parlare di comunità. Ho trovato una vasta rete di persone affini a me, chi per alcuni versi, chi per altri. Sento di farne parte come contribuente sia attiva che passiva; sono tante le cose che ho imparato grazie ad altr* e ogni tanto mi capita anche di insegnare qualcosa, sono sempre disponibile ad aiutare chiunque mi faccia domande su cose che conosco.

La scena fotografica probabilmente c’è, ma io non ne faccio parte e non so neanche se ci sia un posto per me all’interno di essa, ma sinceramente non mi pongo il problema. La cosa che mi interessa è connettere con le persone, siano esse professionist* o meno, per dialogare, scambiarci idee, immagini e chi più ne ha più ne metta! Ancora meglio se condividiamo qualche ideale per cui lottare insieme.

Stai lavorando a qualche progetto in particolare? Hai qualcosa in programma per il futuro?

Diciamo che la mia tendenza personale è sempre stata quella di scappare dalle occasioni della vita! Ecco, questa è una cosa su cui ho iniziato a lavorare durante il lockdown. In passato ho rifiutato collaborazioni, interviste… adesso invece sto imparando a espormi di più, perché a forza di isolarmi, negli ultimi anni, mi sono disabituata a questo tipo di contatto.

Progetti in particolare? Programmi per il futuro? Sì. Il mio ultimo progetto era costruirmi una camera oscura e, ora che l’ho fatto, mi immergerò nella stampa analogica; vediamo cosa ne viene fuori, ho anche intenzione di esplorare il mondo dei mixed media.

Per il futuro ho in programma una serie di autoritratti mescolati a paesaggi, ma sono ancora in fase di progettazione, il tema ricorrente è quello della solitudine e della connessione con l’ambiente in cui ci troviamo. Stay tuned!

Sono anche entrata a far parte di un collettivo di fotograf* italian* (amatoriali e non) curato da nientepopodimeno che Lorenzo Caleca, con cui lavoriamo insieme a una zine che si chiama Sprocket Holes. Siamo ai primi numeri, quelli introduttivi, vediamo poi come si svilupperà nel tempo, promette bene.

Ho anche recentemente accettato di fare un film swap con lomoemy, (Emiliano Marocchi) membro del collettivo di SH. Sarà interessante vederne i risultati!

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