Il terremoto che colpì la valle del Belice quarantasette anni fa non ebbe “soltanto” degli effetti distruttivi. Gibellina, piccolo paese dell’entroterra siciliano in provincia di Trapani, ebbe la fortuna di rinascere dalle proprie ceneri inaugurando così la ricostruzione a 360 gradi di una città nuova che, ancora oggi, può vantare non solo case solide e belle ma anche opere realizzate dagli illustri nomi dell’arte contemporanea, che hanno fatto di Gibellina un centro pulsante di creazione e di cultura. Ed è proprio in questa Nuova Gibellina, tra le sculture di Consagra, la Montagna di Sale di Mimmo Paladino e il Cretto di Alberto Burri, che ho incontrato l’artista Carlo La Monica, un uomo di 67 anni solare e piacevole, che con la sua dialettica originariamente trapanese, mi ha trasportato nel suo mondo, parlandomi di sé e del suo modo di fare arte.

Cosa vuol dire essere un pittore oggi in una realtà così piccola, ma allo stesso tempo grande, come Gibellina?

Se sei un pittore non te ne accorgi, lo dicono gli altri che sei un pittore. Un artista crea ciò che vuole, realizza ciò che desidera ma saranno poi gli altri ad etichettarti come tale. Gibellina non è una realtà piccola. Si può considerare, nel campo dell’arte contemporanea, un vero e proprio punto di riferimento. Ciò che l’ha resa grande è stata la rinascita dopo il terribile terremoto del 1968, una rinascita non solo fisica ma anche culturale, dettata dalla grande personalità di Ludovico Corrao, che in veste di Sindaco prima e di Senatore della Repubblica dopo, ha saputo creare un museo a cielo aperto dove ancora oggi trovano posto opere di artisti di spessore come Mimmo Paladino, Carla Accardi, Consagra e Arnaldo Pomodoro. Io, che avevo cominciato come pittore figurativo, sono stato travolto da questo tornado d’Avanguardia, che mi fece crescere intellettualmente e artisticamente giorno dopo giorno, senza esserne completamente consapevole.

Cosa è cambiato oggi rispetto al passato?

Qualcosa è cambiato, anzi tutto è cambiato! Gibellina, dopo Ludovico Corrao, aveva dimostrato che poteva camminare sola con le sue gambe. Aveva creato una nuova città: la Gibellina Nuova, che prendendo le distanze dalla Vecchia Gibellina, ormai un cumulo di macerie, era pronta a immergersi in un nuovo panorama. Ma non tutti apprezzavano questa rinascita “artistica”. Il popolo di Gibellina non gradiva molto quest’arte. Sicuramente per mancanza di istruzione, oppure semplicemente perché ciò che importava di più era dove posizionare la stalla e come poter continuare la propria attività da contadino. Si sentiva spesso dire “ chi su sti piezzi ri fierru?” riferendosi alle numerose sculture di Consagra, oppure “sti piezzi ri balatuni(pietre)chi sunnu?” parlando delle sculture di pietra che anche io realizzai intorno la città. Una scultura perdeva così ogni valore di opera d’arte per diventare solo un riferimento per l’indirizzo di un appartamento. Perdeva il suo valore di opera d’arte autonoma, ma la generazione che ha vissuto quegli anni di fervore creativo è morta di vecchiaia e ciò che rimane oggi è più gioventù e più istruzione che consente a Gibellina di rinascere per la seconda volta.

Dalla tua biografia sappiamo che hai lavorato per molto tempo come fabbro e poi come macchinista per le Ferrovie dello Stato. Ma quale è stato il tuo percorso personale ed emotivo che ti ha indirizzato a intraprendere la carriera d’artista?

Sono sempre stato interessato all’arte e non ho mai trascurato il disegno. Fin dalla scuola media mi sono sempre dedicato agli schizzi, anche durante il lavoro di macchinista che mi permetteva lunghe pause durante le quali potevo fissare ricordi ed emozioni. Anche dopo il terremoto, quando i ricordi della vecchia Gibellina prendevano forma nelle grandi tele che ritraevano in bianco e nero (perché i ricordi non sono mai a colori) le strade che percorrevo da piccolo, i negozi che frequentavo e la zona della mia vecchia casa. Così ho cominciato. Con tele figurative che esprimevano tutte le emozioni vissute nella vecchia Gibellina. Non c’è mai stato un momento in cui ho deciso di considerarmi artista. C’è stato solo un avvicinamento graduale incrementato dal fenomeno degli artisti che fece di Gibellina il centro dell’arte. La prima scultura che feci fu per Emilio Isgrò, fautore dell’arte visiva, il quale mi fece conoscere tutti i grandi artisti allora attivi in città, che diventarono presto i miei punti di riferimento.

Infine parliamo della tua arte. Come nascono i soggetti delle tue opere pittoriche, scultoree e grafiche?

Sono sempre stato un artista molto poliedrico. Ho cominciato con la pittura figurativa per poi concentrarmi sull’astrattismo, sulla scultura e sulle tecniche grafiche. In un periodo della mia vita feci una tiratura di più 100 esemplari di acquaforte e serigrafie. Non ho problemi nel lavorare con qualsiasi materia: dal legno all’acciaio, dall’acciaio al bronzo e così via. La mia ricerca artistica si concentra unicamente sul valore del segno. La definirei “arte segnica” perché tutta la mia arte è ricavata dai segni. Questi, apparentemente, sembrano dei segni archeologici, ma in realtà non lo sono. Provengono dai volumi lasciati da impronte come quelli di una ruota, il cui segno, ingrandito e semplificato, lo rivediamo nelle mie opere più colorate. Il mio scopo è quello di creare Archetipi, delle immagini primarie, ma negativi, perché i soggetti si concentrano su un negativo di un positivo non più esistente. Ad esempio, se noi prendiamo l’impronta di una scarpa lasciata sul terreno questo è il segno positivo, ma questa impronta è destinata a riempirsi lasciando solo il negativo di un positivo di una matrice ormai distrutta.

http://www.carlolamonica.it/

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