Il Sultano è sdraiato su una collina al centro della sala, alta tre metri e fatta di centinaia di cuscini: alcuni antichi e preziosi, altri anonimi, altri ancora dipinti con colori sgargianti e facce da cartoni animati. I cortigiani si affollano attorno al giaciglio. Ragazze di tutte le età dormono o vegliano su divani e materassi distribuiti ai piedi della collina. I camerieri vanno e vengono dalle cucine portando vassoi carichi di spritz, antipasti, alici marinate, strisce di coca con banconote da duecento già arrotolate, frutta di stagione, frutta esotica, una statua con il cazzo gigante.

«Allora, che novità ci sono?» chiede uno dei fedelissimi.

«Dal Quirinale nessuna notizia.»

«Il tempo delle trattative è finito. Pretendiamo il ritiro di tutte le accuse» dice un altro, come se recitasse di fronte ad un microfono. «Faremo riaprire i processi giunti a sentenza definitiva. Bloccheremo i lavori parlamentari, se necessario.»

Il Sultano si rotola su un fianco, rovescia un vassoio di albicocche uno di datteri uno di Negroni ghiacciati. Una delle maggiorenni sdraiate a valle si sveglia per gli spruzzi che le bagnano la schiena: si alza di scatto strillando, poi cambia di posto e si rimette a dormire. La frutta e l’aperitivo si spargono sul pavimento, qualcuno scivola sui datteri abbattendo camerieri e capigruppo.

«Voglia-mo la gra-zia! Voglia-mo la gra-zia!» scandiscono a piena voce alcuni peones in coro. Si fermano per applaudire una assessoressa che transita in quel momento, vestita da leoparda. Il Sultano cerca una posizione comoda, frana verso il basso; la prostata artificiale comincia a fischiare come un bollitore sul fornello. I più vicini si gettano a terra coprendosi la testa con le mani. Si sente uno scoppio secco e smorzato, come legno che si spezza: il Sultano esala un aahhh liberatorio, seguito dal sospiro di sollievo di tutti i presenti.

«Cosa dicono in Rai?»

«Da qualche settimana ci mettono un sacco di tempo a rispondere. Anche tre, quattro squilli. Stanno alzando un po’ troppo la cresta. La copertura comunque la garantiscono. Ci mandano una squadra per registrare le interviste.»

«I fogli con le dichiarazioni?»

«Sono sotto il crocifisso.»

La quiete della sala si rompe senza preavviso: tra gli onorevoli scoppia una violenta battaglia a colpi di bignè al cioccolato.

«Io sono il più fedele!»

«Che cazzo dici, io sono il più fedele!»

«Guardate che io gli leccavo il culo quando voi ancora studiavate da socialisti!»

«Andate a cagare, deficienti, io sono la prediletta! A voi mica vi ha scopato!»

«E tu che ne sai? Stronza!»

Il pavimento diventa insidioso. Il Sultano fa un cenno al suo segretario, gli indica la ragazza che prima è stata colpita dagli spruzzi di Negroni.

«Sveglia quella troia, falla venire qui.»

Il segretario esegue. Chiama la troia, la tira per un braccio fino a che quella si alza, scala vari strati di cuscini e arriva ai piedi del Sultano, un po’ imbronciata e un po’ compiaciuta.

«Dammi dell’uva» dice il Sultano.

«E dove la prendo?»

«Ferma un cameriere e fattela portare. Forza, veloce.»

La troia rotola giù e strattona in malo modo il primo cameriere che ha a tiro, gli fa un cenno verso il trono di morbidezza. Il cameriere scatta in direzione delle cucine, dopo dieci secondi torna con un vassoio stracolmo di uva luccicante, non un acino che non sia perfetto. La troia prende il vassoio, congeda il cameriere con un calcio nel culo e sale in cima alla collina. Depone l’uva di fronte al Sultano, stacca due acini e glieli porta alla bocca. Il Sultano mangia avidamente, si lascia schiacciare e strofinare l’uva sulla faccia. La troia gliene porge un intero grappolo, con un altro gli bagna i piedi e glieli bacia, mentre il Sultano si riempie la bocca di altri acini sino a che il sorriso gli si contorce. Tossisce e sputa, mentre la sua faccia si ricopre di rughe; la troia gli morde le caviglie, vorace.

«Voglio che me lo succhi. Qui, davanti a tutti» dice il Sultano, in estasi.

«Dai, papino… lo sai che sono allergica alla plastica. Mi si riempie il viso di chiazze rosse.»

«Rompipalle che sei, ma che cazzo ci stai a fare qui?» sbotta il Sultano. Afferra la troia per un braccio, la fa rotolare giù in fondo alla collina di cuscini insieme al vassoio e all’uva gocciolante. «Vattene a fare in culo, vai» le dice, si riadagia sbuffando. La guerra dei bignè intanto prosegue e si allarga a tutte le correnti del partito. Alcuni invocano il congresso, altri l’azzeramento immediato dei vertici. I camerieri vengono assoldati dai capicorrente perché riforniscano di cibo solo gli alleati, «Portate cose più dure, tipo le aragoste». Diversi camerieri cambiano casacca in corsa dietro enormi ricompense, all’inizio elargite di nascosto e poi in modo sempre più sfacciato, sventolando le banconote in faccia agli avversari. Clamoroso l’episodio di un vassoio di astici e ostriche dirottato in cambio di settemila euro e un anno di puttane gratis.

«Figli miei, chi di voi mi ama di più?» chiede a gran voce il Sultano, innescando una breve tregua. Tutti si fermano gridando «Io! Io ti amo più di tutti!», per enfatizzare le dichiarazioni riprendono a lanciare dolci e crostacei con più violenza di prima. La sala è un porcile sovraffollato: le troie maschio e le troie femmina si rotolano nel fango alla crema, solo la cima della collina è risparmiata dalla battaglia. I camerieri hanno intascato un patrimonio in mazzette e regali, si ritirano soddisfatti nelle cucine e non portano più munizioni a nessuno. Deputati e senatori raccolgono il cibo da terra e se lo lanciano addosso insieme a tutto quello che c’è sul pavimento, scarpe firmate vetri rotti anelli parrucche nuvole di cocaina e una statua con il cazzo gigante.

Ogni corrente ha i suoi rappresentanti che non partecipano alla lotta e si riuniscono in un angolo a discutere in cerca di una soluzione pacifica al conflitto; il conciliabolo è interrotto di tanto in tanto da raffiche di crema pasticcera e fuoco amico. Gli ambasciatori si scansano per quanto possono, le camicie e le cravatte si lordano di granella appiccicosa. Solo lo zio del presidente del Consiglio, braccio destro del Sultano, è lindo e inappuntabile come appena uscito dalla lavanderia. Qualcuno insinua che sia protetto dal Padreterno in persona, se no non si spiega come faccia a restare immacolato: le vivande e gli avvisi di garanzia lo sfiorano e gli scivolano addosso, non c’è verso di macchiarlo, è come un’immaginetta. «Dovremmo fare tutti un passo indietro» mormora, parla sempre a bassa voce ma non c’è orecchio che non lo senta.

«Un passo indietro? Come fa a chiederci un passo indietro quando vogliono sbatterci fuori dal partito, eliminarci, toglierci la rappresentanza? Questi metodi fascisti non li accettiamo.»

«Ma se eravate voi che facevate il saluto romano, alle ultime amministrative.»

«Stronzate, era solo una goliardata. Noi siamo democratici veri.»

I rappresentanti dei fedelissimi al Sultano si ritirano dalla riunione, sdegnati. Gli altri si stringono più stretti l’uno all’altro, per non farsi ascoltare.

«Allora? Il Sultano cosa dice?»

«Vuole andare fino in fondo. Se non otterrà la grazia e il ritiro di tutte le accuse, pretende che ci dimettiamo in blocco domani stesso.»

«Col cazzo. Fra una settimana scatta il vitalizio e mi devo dimettere? Non esiste.»

«Dice che farà fuori tutti quelli che non si allineano.»

«Che ci provi. È la volta che lo mettiamo in minoranza.»

«Quanti siamo?»

«Il numero preciso ancora non c’è. Almeno metà dei deputati è con noi, sicuro.»

«E al Senato?»

«Più o meno lo stesso. Forse qualcosa in meno di metà. Ma c’è un sacco di gente interessata. Hanno paura di esporsi, stiamo cercando di convincerli. Chiedono garanzie prima di aderire.»

La battaglia si interrompe e i combattenti si fermano come atleti dopo un fischio dell’arbitro, i gesti interrotti a metà, le mani lorde di crema e succo d’uva. È arrivata una telefonata del presidente della Repubblica. Viene diffusa in vivavoce da altoparlanti nascosti nelle pareti: il Sacro Verbo sembra provenire da ogni direzione, come una voce celeste.

«Cari deputati, cari senatori. Buongiorno.»

«Buongiorno, signor presidente» rispondono in coro i presenti. L’unico a non salutare è il Sultano, che è sceso dal suo giaciglio con addosso una coperta e si è seduto accanto ad un materasso ricamato. Sopra c’è la ragazza che gli ha negato il pompino in pubblico: si è addormentata con addosso un babydoll turchese che lascia vedere ogni dettaglio del suo corpo. Il Sultano le tasta le tette attraverso la stoffa lieve; l’altra mano armeggia sotto la coperta, scossa dai tremiti.

«Mi spiace interrompere la vostra riunione» dice il capo dello Stato. «Sono certo che la discussione interna al partito sia stata sinora proficua e costruttiva.»

Quelli che lanciavano il cibo cercano di nascondere le mani, le strofinano sui pantaloni e sulle gonne per pulirle alla meno peggio, si tolgono pezzi di cibo dai vestiti: il collegamento è solo audio, ma non si sa mai.

«La discussione è accesa, ma civile e feconda, signor presidente» dice lo zio del premier. «Come lei sa, nel partito non c’è ancora una posizione univoca su come affrontare le conseguenze della persecuzione giudiziaria che colpisce il nostro leader.»

Il Sultano comincia ad ansimare sonoramente, si agita sotto la coperta.

«Certo, certo, ci mancherebbe» dice il presidente della Repubblica e del Csm. «Posso comprendere il vostro disappunto per ciò che sta accadendo. Come sapete, mi sono impegnato per garantire al vostro partito il diritto a partecipare alla vita politica del Paese. È giusto, anzi sacrosanto, che i vostri elettori continuino ad essere degnamente rappresentati in Parlamento.»

Il Sultano è sempre più eccitato e uggiola forte, mormora «Sei una puttana, sei una puttana schifosa e basta, ecco cosa sei, una puttana». Continua a palpare la ragazza, che dorme e non si accorge di niente, oppure fa finta. Le deputate e le senatrici guardano il Sultano e sospirano, invidiose e intenerite; anche qualche collega maschio osserva la scena e vorrebbe essere al posto della bella addormentata, ma non si può dire. Gli altri invece vorrebbero essere al posto del Sultano, ma per quello basta prenotarsi.

«Tuttavia» aggiunge il capo dello Stato, «è mio dovere ricordarvi che fate parte di una maggioranza, e che questa maggioranza sostiene il governo in carica. Se l’esecutivo dovesse cadere sarebbe una catastrofe per tutto il Paese. L’alleanza con i democratici sono stato io a volerla, non era prevista, prima delle elezioni: non era in programma, né nei vostri auspici. Anzi, giuravate che per nessun motivo al mondo avreste governato assieme.»

«Ma signor presidente, anche lei aveva giurato che non avrebbe accettato una seconda candidatura al Colle…» azzarda timidamente uno dei fedelissimi del Sultano. Viene immediatamente sommerso da fischi e urla di disapprovazione dai membri delle altre correnti e anche dai suoi.

«Come cazzo ti permetti?» tuona la voce del presidente. «Siete stati voi ad implorarmi di accettare un altro mandato, perché non trovavate un accordo con gli altri partiti. Vi stavate cagando addosso all’idea che venisse eletto a sorpresa un qualche difensore della Costituzione, indisponibile a scendere a patti. Vi ho salvato il culo, stronzi irriconoscenti! Non dovete azzardarvi a dire una sola parola sul mio operato, ci siamo capiti?»

«Ma signor presidente…» abbozza lo zio del premier.

«Signor presidente un cazzo! Non voglio sentire una parola!»

«Sei una puttana, sei una puttana schifosa, siete tutte mie, maledette troie» ulula il Sultano, il cerone si scioglie e cola sul pavimento. La bella addormentata ha gli occhi chiusi e trattiene a stento una smorfia di disgusto, ma è solo un attimo, in realtà dorme, non si è svegliata per niente. La voce del presidente riempie la sala come un temporale e fa tremare i vetri.

«Se siete ancora al vostro posto lo dovete a me, pezzi di merda! Se la gente non vi ha ancora linciato è perché io ho tenuto la barra dritta in mezzo a tutte le vostre cazzate! Mi dovete baciare il culo e basta, non voglio sentire neanche una cazzo di parola, altrimenti io vi rovino, capito? Vi lascio al vostro destino e starò a guardare il giorno che vi appendono per i piedi in piazza! Fate la vostra riunione di merda e dite quello che dovete dire, potete anche ammazzarvi tra di voi, non me ne frega un cazzo, ma se fate cadere il governo siete morti, capito? Siete morti!»

Le ultime parole del capo dello Stato si mischiano al rantolo del Sultano, che è venuto proprio alla fine del monito presidenziale e ora si accascia, svuotato e senza forze, sulla bella addormentata. Il collegamento audio si interrompe con un rumore secco, come di una cornetta riappesa al telefono con violenza. Restano tutti immobili e in silenzio, si sente solo il respiro caldo del Sultano che rallenta gradualmente insieme ad una specie di risucchio meccanico, cadenzato, che arriva da sotto la coperta e si spegne poco a poco. Lo zio del premier comincia a battere le mani, mosso da incalzante passione; uno dopo l’altro tutti i presenti lo imitano, l’intera sala è travolta da un applauso oceanico che sembra non voler finire.

«Evviva il presidente! Grazie presidente!» gridano tutti spellandosi le mani. Il discorso del capo dello Stato ha fatto breccia nei cuori e riportato la serenità all’interno del partito. Ora le fazioni si scambiano sorrisi lascivi ed effusioni, come se i contrasti di poco prima non ci fossero mai stati. Il Sultano si scuote dal torpore e con fatica risale arrancando in cima alla collina di cuscini, lasciando la bella addormentata al suo sonno. Con un ultimo sforzo si mette in piedi e alza le braccia al cielo.

«Figli miei, chi mi ama di più? Chi è il più devoto tra voi?»

«Io! Io!» urlano tutti, le voci rotte dalla paura di non sembrare entusiasti. I congiurati si scambiano sguardi discreti che non fanno rumore, cenni rapidi del capo in direzione di qualcosa che non si vede, qualcosa che deve ancora succedere. In una stanza appartata, funzionari muti distribuiscono coltelli dalla lama corta, tutti uguali, coltelli senza impronte per mani senza faccia. Il Sultano cerca tra i volti dei suoi seguaci gli occhi dei giuda, ogni sguardo si trasforma in un tradimento possibile – forse hanno già deciso di abbandonarmi, tutti quanti – i sorrisi sono stabili, senza crepe.

«Abbiamo poco tempo per ottenere la grazia» dice il Sultano. «Dubito che ce la faremo in questi ultimi giorni. Ragion per cui, domattina presenteremo le dimissioni alle Camere e faremo cadere il governo. Non si può aspettare oltre.»

Le mani si stringono attorno ai coltelli nascosti sotto le giacche sporche di crema. Alcuni si guardano attorno, cercando di mostrarsi disinvolti e fedeli. I pretoriani del Sultano festeggiano e lanciano grida di guerra che riempiono la sala, molestano le ragazze sui materassi, inducendole ad alzarsi sbuffando e a cambiare di posto.

«Siamo con te» strilla un fedelissimo. Le maglie dei congiurati si stringono, diventano un semicerchio intorno al letto del Sultano.

«Sgozzeremo per prime le puttanelle, senza che abbiano il tempo di svegliarsi. Poi li prenderemo uno ad uno» mormora un sottosegretario nell’orecchio di un deputato che si è appena convertito alla causa della rivolta.

«Ora siamo maggioranza e nessuno può fermarci.»

«Nessuno potrà impedirci di fare il bene del Paese.»

Un brivido attraversa la sala, distorcendo i volti  i pensieri: sottopelle, ciascuno dei presenti si accorge che lo scoppiettante epilogo sta per arrivare. Tutti frugano negli occhi di tutti per indovinare i pensieri, le intenzioni. Un cameriere si affaccia dalla porta della cucina. Osserva la situazione e torna dentro discreto, con passi da gatto.

[in copertina: Andrea Mantegna, Baccanale con sileno (incisione, 1458-1490 ca.)]

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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