«Quando l’altrui persona cessa di commuoverci, allora soltanto può cominciare la commedia. E comincia con ciò che potremmo chiamare l’irrigidimento contro la vita sociale. È comico il personaggio che segue automaticamente il suo cammino senza preoccuparsi di entrare in contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per sottrarlo al suo sogno».
(Il riso, Herni Bergson, 1900).

Nell’accezione del filosofo francese, il riso è un ammonimento, un gesto sociale che scuote l’individuo, risvegliandolo dal torpore di un’esistenza che rischia costantemente di scivolare nel puro e semplice meccanicismo.
Ecco emergere, allo scoccare del Novecento, una nuova teoria sulla natura e la genesi della comicità: si ride non più e non solo per l’avvertimento di una propria presunta superiorità, bensì per l’avvertimento di un’anomala fissità, cristallizzazione di un qualcosa, l’essere umano, che fisso non è, tutt’altro. Se pensiamo alla cosiddetta dottrina umorale di tradizione ippocratico-galenica, esistevano quattro fluidi organici fondamentali – sangue, flemma, bile gialla e bile nera – i quali regolavano stati e reazioni del nostro corpo. Dalla diversa miscela di questi “umori” dipendevano, quindi, non solo il benessere o la malattia, ma anche il temperamento dell’individuo.
Dal latino humor, humoris, “umidità, liquido”, oggi con humour si intende la capacità di cogliere e rappresentare quegli aspetti della realtà che possano suscitare la risata. È sorprendente allora notare come il termine rechi in sé l’accezione di una fluidità latente, quella stessa che, secondo il filosofo francese, il riso intende salvaguardare, nonché ripristinare in quanto principio vitale dell’universo.
Ma se il comico è il prodotto di un’impressione di “meccanicità applicata alla vita” – questa la celebre formula con cui è spesso riassunto il testo bergsoniano – tale meccanicità non può che discendere dalla tendenza, tutta umana, a regolamentare la natura, facendola assomigliare appunto ad una macchina. Il primo attentatore del principio di vitalità è senz’altro l’intelletto, che è poi ciò che contraddistingue l’uomo dalle altre specie animali, facendo di lui non solo un essere pensante ma anche un essere ridente.
«Molti hanno definito l’uomo un animale che sa ridere – afferma Bergson. Avrebbero potuto definirlo anche un animale che fa ridere, poiché se pure qualche animale o oggetto inanimato vi riesce, è sempre per una rassomiglianza con l’uomo, per il segno che l’uomo vi imprime o per l’uso che l’uomo ne fa».
L’intelletto, dunque, se da un lato, irrigidendo l’individuo, provoca la sua distrazione dalla naturale vivacità della vita, dall’altro lo preserva dalla tragedia, innescando “qualcosa come una momentanea anestesia del cuore”, che è poi la condicio sine qua non della comicità.
«In una società di pure intelligenze probabilmente non si piangerebbe più, ma forse si riderebbe ancora. […] Il riso è incompatibile con l’emozione. Descrivetemi un difetto leggero quanto vorrete: se me lo presentate in maniera da commuovere la mia simpatia, o la mia paura, o la mia pietà, è finita, non posso più riderne. Scegliete invece un vizio profondo, e anche, in generale, odioso: potrete renderlo comico se prima riuscite, con appositi artifici, a far sì che mi lasci insensibile. Non dico che allora il vizio risulterà comico; dico che da quel momento potrà diventarlo. Bisogna che non mi commuova, ecco la sola condizione realmente necessaria, benché essa non sia certo sufficiente».
Così, se un eccesso di intelligentia soffoca talvolta la vita, quella stessa intelligentia la riattiva, con lo scoppio di una salvifica risata.

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