Tra le diverse maniere di studiare la figura dell’immigrato italiano in Argentina, quella letteraria mi sembra una delle più interessanti perché, essendo frutto di un accurato lavoro intellettuale, riconferma e decostruisce gli stereotipi sui nostri connazionali; inoltre, ripercorrendo lunghi itinerari transoceanici intervallati dalla ferita del distacco dal paese di provenienza, restituisce la convivenza di semplicità e complessità che caratterizza l’inmigrante italiano ed il suo contributo all’argentinidad.
La letteratura argentina, in linea con l’ampiezza e l’importanza del tema, si è molto soffermata sull’apporto dell’italianità all’Argentina e sulla descrizione, più o meno accurata, del “gringo” e del “tano”.
I primi testi riguardanti l’alluvione migratoria coincidono proprio con quest’ultima nella seconda metà dell’Ottocento: da quel momento in poi fiumi d’inchiostro si sono spesi per cercare di entrare nei meandri della questione.
Attualmente ci troviamo in una fase nuova, nella quale l’ormai prolungata assenza di immigrazione europea porta le arti a lavorare sulla memoria del nostro popolo, sulla ricostruzione degli sbarchi, delle esistenze e dei trapassi di chi si è spinto ultramar. La memoria serve a questo, a capire chi siamo e da dove veniamo: praticamente a provare a rispondere ad una delle domande più complesse che ci sia dato indagare. Infatti, se è indubbio il contributo degli italiani nella formazione dell’argentinidad, nonché di quella europeizzazione voluta da Sarmiento quale base dell’unità nazionale e costituzionale nel 1853 – fondata sull’artificiosa dicotomia civiltà bianca vs. barbarie indigena – e altrettanto fondamentale comprendere l’importanza dell’Argentina nell’italianidad, cioè in quella “Italia di riserva” o “Italia fuori dall’Italia” che ha fatto la storia del nostro Paese pur non trovandovisi fisicamente.
Superate le fasi di timore e di pregiudizio (El gaucho Martín Fierro, 1872; Inocentes o culpables?, 1885; En la sangre, 1887), si apre una stagione letteraria florida sul legame tra italiani e argentini, dove i primi si confondono con i secondi e viceversa. Si potrebbero chiamare in causa molti testi ed autori sia di romanzi sia di poesie e racconti, ma mi limito ad una semplice proposta: analizzare il principale romanzo di Mempo Giardinelli per indagare il rapporto tra immigrazione italiana e ricerca della memoria.
Mempo Giardinelli, ne Il santo oficio de la memoria (1992) ci –si- pone la seguente domanda: chi è e com’è l’italiano in Argentina?
Le sfaccettature proposte sono sicuramente tante, io ne ho scelte alcune.
In primis è un migrante povero che da un lato cerca di ignorare o disconoscere le proprie radici sottoproletarie mentre dall’altro non viene riconosciuto per la sua reale origine, quanto piuttosto per una idealizzata “superiorità europea” di cui l’Argentina cominciava a farsi vanto. L’autore scrive «Los italianos de aquel tiempo eran así: llegaban a este país con una mano atrás y otra adelante, pero todos pretendían haber sido condes, nobles», e ancora «se ignoraba la Europa real que éramos nosotros los inmigrantes, los campesinos brutos, rústicos y muertos de hambre […] los laburantes, las hormigas del mundo […] en su inmensa mayoría proletarios».
A tale realtà si mischia quella del viaggio, della partenza dalla madre patria, che viene riattualizzata mediante il continuo riferimento a imbarcazioni delle quali vengono puntualmente elencati i nomi: “Gabrielle D’anunzio”, “Mazzini”, “Dante Alighieri” e che io stesso, per quanto concerne i miei avi Bertenasco emigrati tra fine Ottocento e inizio Novecento, non dimentico: “Scandia”, “Orione”, “Amazon”, “Cap. Ortegal”, “San Giovanni” (dati del CISEI, Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana). Lo stesso avviene per quanto riguarda la professione: agricultor, labrador, desconocida oppure lasciata in bianco.
Chiaramente gli italiani, pur essendo una massa di diseredati che si reca nelle Americhe in cerca di fortuna, sono anche “coloni” delle terre vergini, almeno in senso culturale: europei, bianchi, cattolici. Il legame tra italiani e spagnoli, i veri conquistadores, si esprime attraverso queste caratteristiche comuni che, pur se non sempre in maniera identica, li oppongono alla cultura indigena. Giardinelli prima parla di «un jesuita italiano de nombre José Solís», autore di un testo sul Chaco, nel quale descrive il territorio e la cultura dei “barbari” che lo abitano, poi – sempre riferendosi agli abitanti del Chaco in cui è ambientata la storia familiare del romanzo – scrive «Nosotros éramos una bola de indios pendejos atropellados por unos cuantos gachupines mesiánicos (..) que vejaron a millones de nativos que vivían en paz con su ignorancia (..) y soňaban con leyendas hermosas que hoy casi nadie recuerda».
Giardinelli non vuole tralasciare l’importante legame tra immigrazione europea e marginalizzazione della cultura indigena, derivante più da scelte politiche interne che dall’arrivo delle masse europee in cerca di opportunità (si trattava chiaramente di un esodo obbligato e non desiderato); l’autore mostra quindi un sano imbarazzo di fronte ad una questione sempre più dibattuta quanto difficile da districare, a maggior ragione includendovisi come parte integrante; infatti poco dopo scrive «Para pensar: ?Y qué mililitro de sangre indígena tengo yo para emplear el nosotros?»
Successivamente si spinge oltre nella riflessione, mostrando come anche i creoli volevano assolutamente conformarsi all’europeizzazione dell’Argentina e scrive «En Buenos Aires todo era obsesión por imitar el refinamiento europeo. Los aristócratas porteňos desdeňaban las vastísimas tierras que poseían y preferían la comodidad europea del Club del Progreso, el Teatro Colón, el Jockey Club o la Confitería del Aguila. Despreciaban todo lo criollo, que sólo era ensalzado cuando trataban con extranjeros y los llevaban a pasear por Palermo».
Il quadro di Giardinelli è completo e, a tratti, doloroso; non solo perché c’è un lirismo intriso di nostalgia per quello che sarebbe potuto essere e non fu o per quelli che non poterono imbarcarsi mai e vissero solo nei ricordi dei parenti emigrati, ma anche perché il mosaico complesso dal quale stiamo cercando di ricostruire la figura del inmigrante italiano in Argentina non lascia spazio a idealizzazioni, ma chiama in causa la politica, la mafia, il nazionalismo.
Buona parte dei primi italiani in Argentina sono mazziniani, repubblicani, comunisti, anarchici bakuniani, portatori di idee sovversive e sofferenti che sperano in una rivoluzione sociale come in un’apocalisse religiosa (la stessa idea è condivisa da Ernesto Sábato in Sobre héroes y tumbas). Giardinelli si sofferma sui movimenti di sinistra sviluppatosi a Buenos Aires a fine Ottocento e inizio Novecento, sulle lotte di Alem, Juan B. Justo e Yrigoyen, nonché sui socialisti della famiglia Domeniconelle narrata nel romanzo, perché «nosotros nacíamos socialistas». In quegli anni negli Stati Uniti della “red scare” il pugliese Sacco e il piemontese Vanzetti furono condannati alla sedia elettrica (23 agosto 1927), pur non avendo commesso nessun crimine – erano accusati di omicidio –, ma solo in virtù del pregiudizio nei confronti degli immigrati italiani con simpatie anarchiche e socialiste.
Gli italiani tuttavia sono principalmente legati da vincoli di gruppo e di comunità. In primis sono in qualche modo riconoscenti alla mafia o comunque ne accettano e ne riconoscono i codici ed i valori; infatti Giardinelli scrive «La mafia no era tan mala; o sí lo era, pero bueno, también era digna de reconocimiento de su moral interna, capaz de sobrevivir a los siglos».
Alla mafia si connette appunto il valore della famiglia e della cerchia ristretta di appartenenza (di sangue, di lingua, di nazionalità), secondo il quale «la ofensa de un extraňo a un hermano o compatriota es siempre ofensa contra nosotros mismos y hay que responder en consecuencia». Tale unità porta con sé il valore –o disvalore – tipico di questa organizzazione: l’omertà.
L’autore ne parla in questi termini: «La llamada conspiración del silencio, la “Omertà”, le parecía un código de conducta admirable, y en todo caso su prédica era que nosotros debíamos aplicarlo para hacer el bien (..) Jamás se confiesa, delata, denuncia o seňala a hermanos e compatriotas, ni ante tortura, tormento o suplicio que incluso pueda significar la propria muerte».
La mafia è aggressività, ma anche codice morale, legame tra persone, forza del silenzio e fedeltà caratterizzata dal “non tradimento”: Giardinelli sa che questa realtà fa parte del sostrato culturale degli italiani e ne nota l’esportazione in Argentina; allo stesso tempo è consapevole del fatto che molti italiani non solo non appartenevano a tale sistema, dal quale semmai subivano angherie, minacce e violenze, ma vi si opponevano fermamente o comunque erano mortificati per le azioni di alcuni compatrioti che portavano nella testa delle persone l’idea “immigrazione italiana uguale mafia” e, come la Nona, mentre leggevano sul diario l’ennesima notizia di qualche azione criminale compiuta da connazionali mafiosi borbottavano: “Tutti italiani, quanta vergogna”.
Questi italiani, sognatori di un mondo che non trovarono (quell’America donde la plata corría en las calles), erano grandi lavoratori, in realtà con caratteristiche diverse l’uno dall’altro (Giardinelli non ci sta dicendo che sono tutti mafiosi, omertosi, socialisti, anarchici, cattolici – anche perché si tratta di ideali in contraddizione tra loro); ciononostante sono legati da alcuni valori che li accomunano: cercano di usare delle espressioni e delle parole nella propria lingua madre che faticano a riutilizzare – ormai si tratta più che altro di una «mezcla de porteňo y cocoliche» nella quale non c’è più traccia di alcuna correttezza grammaticale – e amano il proprio Paese e la propria regione d’origine, delle quali hanno una grande nostalgia derivante dall’antico desarraigo. Questo per gli “italiani in Italia” spesso non è semplice da comprendere, ma la necessità di fare ordine nel proprio passato e di comprendere da dove si viene, come e perché è davvero fondamentale. Il ricordo è duro, la storia è sofferenza, tanto da spingere lo scrittore in un passaggio a proporne l’abolizione; ma l’alternativa alla memoria sarebbe un eterno presente, privo di racconti e radici, praticamente un’utopia triste, una mancanza di stratificazioni generatrici di significati e di mondi.
«La memoria es una cosa seria».
«Olvidar es matar».
Per questo motivo non so se sia giusto parlare di patriottismo, nazionalismo e campanilismo o se sia meglio considerare alcuni aspetti ricorrenti nel Santo oficio de la memoria proprio come una incessante, mai risolta e sempre aperta necessità di fare memoria, di ricordarsi, di sforzarsi di conoscere le proprie origini sia nelle tracce materiali (fotografie, documenti) sia in quelle immateriali (parenti rimasti in Italia, ricordi ormai sbiaditi di luoghi lontanissimi, citazioni letterarie, ucronie di vite che non furono, modi di dire in realtà inesistenti che più che essere riattualizzati sono re-inventati…). La dissoluzione dell’italianità delle seconde e terze generazioni di immigrati, di cui parla anche Fernando Devoto in Storia degli italiani in Argentina, è una ferita che viene in qualche modo rimarginata mediante il ricorso alla storia e all’identità ormai (quasi) perdute.
Tale esercizio di memoria diventa inoltre materiale letterario per accogliere idee, contrasti e conflitti presentati dall’autore come ricerca di una verità che forse non è monolitica, ma aperta al dialogo: mutante dialettica mediante la quale c’è spazio per la messa in discussione del conformismo acritico e della mancanza di ragione, ma dove Giardinelli riconosce la complessità dell’essere umano e della sua storia al punto da concedere una sorta di pietas collettiva di fronte alla palese irrazionalità fideistica dei nostri simili, tanto più battaglieri e convinti, quanto ignoranti vittime della pubblicità, del sedicente progresso e della tecnica (esiste un parallelo molto interessante con Ernesto Sábato, anch’egli troppo consapevole per cedere all’ottimismo richiesto alle masse lobotomizzate dalla manipolazione mediatica delle grandi industrie).
Per terminare riprendo le parole di Giardinelli che, intento a far parlare i suoi personaggi, eredi di un’Italia sospesa nel tempo e nello spazio, ne tesse le lodi storico-letterarie.
«Se ponía exultante y hasta era capaz de hablarnos durante horas de Virgilio, Dante, Mazzini, Garibaldi», e ancora: «El amor de la Nona por Italia era absoluto (..) Para ella no había nada como lo italiano, lo romano en particular». Successivamente, sempre nelle citazioni letterarie semi-colte della Nona, di Annunziatta o di qualche altro membro della famiglia Domeniconelle, riferendosi a Shakespeare, scrive «Es inglés pero ambienta mucho en Italia», quasi come se si dovesse trovare un legame con l’Italia a tutti i costi.
Tuttavia l’apice della nostalgia e della assoluta necessità di “ritrovarsi in Italia”, di ricomprendersi come tali dopo decenni o secoli altrove e di stringersi attorno al orgullo de la italianidad arriva quando Giardinelli crea un neologismo per esprimere questo sentimento profondo e forse intimamente non del tutto esternabile: “danteggiare”, cioè rievocare in versi il ricordo della patria perduta, rigorosamente dopo aver gridato «grande, Virgilio, grande, Viva Italia!», come soleva fare Doňa Angiulina «cuando le daba por recitar Virgilio en italiano para luego traducirlo».
In fondo “danteggiare” o esprimersi nel “puro idioma de Dante”, per usare le parole di Arlt, non significa altro che riagganciarsi all’antica italianità perduta, quella in cui la lingua era pulita e precisa, mentre rievocare Virgilio e la grandezza dell’Impero è un modo per riappropiarsi dei fasti di Roma mai vissuti, ma che rappresentano comunque un sostrato inolvidable.
Perché «olvidar es matar».
[le opere in copertina e all’interno del testo sono del pittore Benito Quinquela Martín (1890 – 1977)]