Barbara Holdrege nel suo saggio Oltre l’ottica europea: lo studio comparativo come antidoto all’egemonia1, discutendo dell’egemonia europea nell’ambito della dibattito sull’eurocentrismo e sull’orientalismo, già affrontato da Edward Said con il suo celebre Orientalism, e da Samir Amin nel suo Eurocentrism2, analizza i percorsi comparativi già avviati e le strade possibili per l’interpretazione del problema del dominio europeo e delle sue conseguenze. Tutto ciò che deriva da questa egemonia è un’intera idea del mondo e le annesse conoscenze appaiono come contaminate o filtrate dallo stesso spirito di prevalenza: ne nasce un punto di vista costante, un’idea della storia e del mondo, che è appunto quella coloniale della quale risentiamo ancora oggi. Nel saggio vengono messe a confronto diverse ipotesi dell’ascesa europea, un passaggio importante, che mi ha ispirato a chiamare in causa l’autrice prima di cominciare, e che vale la pena ripercorrere prima di qualsiasi altra considerazione. Successivamente all’opera di Said e di Amin, nascono due principali critiche all’idea eurocentrica: una alle teorie sociali, economiche e geografiche e alla storiografia alla quale si riferiscono; un’altra che muove analisi ai contributi del “resto del mondo” al sistema-mondo prima, durante e dopo l’egemonia europea dell’epoca moderna.
Alla prima analisi appartiene l’opera di J. M. Blaut. In The Colonizer’s Model of the World. Geographical Diffusionism and Eurocentrism and Eurocentric History viene discussa la teoria del “miracolo europeo”, e in cui si sostiene che l’eurocentrismo ha sviluppato un’idea di mondo del colonizzatore che è servita come legittimazione, spiegazione, e promozione dei progetti coloniali e neocoloniali. Un sistema di credenze perpetuato nelle accademie. Non si tratta di pregiudizi ma di una questione scientifica, un sistema di credenze basato sulla realtà empirica, perciò difficile da smantellare. In quest’ottica l’analisi di Blaut si spinge ad analizzare il modello di mondo del diffusionismo europeo. In questa idea di mondo esisterebbe un interno e un esterno, un centro e una periferia, e le innovazioni si muoverebbero dal centro alla periferia. Il punto fondamentale è la critica all’idea di autonomia di questo percorso di crescita dell’Occidente, secondo la quale l’Europa avrebbe preceduto il resto del mondo nello sviluppo sin dalle epoche remote e questo spiegherebbe la storia e la geografia successive al 1492: modernizzazione, capitalismo, conquista del mondo. Blaut imputa a teorie razziali di stampo biologico lo sviluppo di questa idea della storia. Nel contempo mostra come prima del 1492 questa superiorità in realtà non esistesse, e lo fa mettendo a confronto tramite un’analisi storica comparativa di Europa, Asia e Africa. Il solo vantaggio dell’Europa sarebbe stata la sua collocazione geografica:
<<[…] non c’è stato alcun “miracolo europeo”. Africa, Asia, ed Europa hanno avuto parti uguali nell’ascesa del capitalismo prima del 1492. Dopo quella data l’Europa ha preso il comando. Ciò è accaduto […] per via della collocazione dell’Europa vicino all’America e della immensa ricchezza guadagnata dagli europei in America e poi in Asia e in Africa – non perché gli europei fossero più intelligenti, più coraggiosi e migliori dei non-europei, oppure più moderni, più avanzati, più progrediti, più razionali. Questi sono miti del diffusionismo eurocentrico che è meglio dimenticare>>3
I sostenitori di questo approccio rivolgono le loro critiche al testo di Immanuel Wallerstein, The Modern World-System, in cui si formula l’idea appunto che il mondo abbia un centro e una periferia, in cui il modello di mondo moderno si diffuse verso l’esterno, incorporandolo. Le critiche sottolineano che nell’analisi si considera l’attuale sistema moderno il primo e unico sistema-mondo, inoltre si contesta il ruolo eccessivo affidato all’Europa nello sviluppo della moderna economia mondiale trascurando il ruolo di Asia e Medioriente.
La correzione principale alle teorie di Immanuel Wallerstein viene da Janet Abu-Lughod, in Before European Hegemony. The World System A. D. 1250-1350 in cui si dimostra che il precursore dell’attuale sistema-mondo è da ricercarsi in uno precedente del XIII secolo, formato da diversi centri integrati in un unico sistema economico, in cui l’Europa non era che una delle periferie emergenti. Secondo Abu-Lughod l’ascesa dell’Occidente è dovuta all’interruzione del precedente sistema-mondo che fecero cadere l’Oriente, cosa che lasciò un vuoto di potere colmato da portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi, i quali fino a quel momento avevano avuto scarso rilievo.
Marshall Hodgson, nella raccolta di saggi Rethinking World History. Essays on Europe, Islam, and World History, a sua volta colloca l’ascesa in una rete con più fuochi afro-eurasiatica comprendente quattro regioni: Europa, Medioriente, India, Cina. Anche egli afferma che l’Europa fino alla fine del medioevo ebbe un ruolo periferico, giovando anzi di un flusso di innovazioni che procedevano da Est verso Ovest. Sarebbe grazie a questo flusso che sarebbe avvenuta la trasmutazione tra 1600 e 1800.
Andre Goundre Frank è tra i più convinti sostenitori di una rivalutazione dei contributi del “resto del mondo” allo sviluppo dell’umanità, prima, durante e dopo l’egemonia europea. Egli approva le mosse di Amin, Blaut, Abu Lughod, Hodgson, e degli altri critici dell’eccezionalità europea, ma sostiene che nessuna di queste critiche è sufficiente a sradicare l’eredità eurocentrica. In ReOrient. Global Economy in the Asian Age l’autore critica l’assunto che vi sia discontinuità nella storia mondiale individuata attorno al 1500, passaggio dal medioevo alla modernità, in cui il mondo sarebbe stato trasformato dall’ascesa dell’Occidente e dallo sviluppo del capitalismo. In particolare contesta l’argomentazione di Abu-Lughod in cui il sistema-mondo del XIII secolo era differente, organizzato su principi differenti rispetto al sistema moderno, emerso secondo Wallerstein nel 1450. Attraverso un’analisi comparata globale della storia economica mondiale dell’era moderna dal 1400 al 1800, tenta di dimostrare che in questo periodo il sistema-mondo non ha avuto un solo centro, contrariamente a quanto affermato da Wallertstein. L’Europa non sarebbe cruciale nell’economia mondiale prima del 1800. Egli sostiene inoltre che “l’ascesa dell’Occidente” a una posizione dominante dell’economia mondiale dopo il 1800 non può essere spiegata facendo riferimento ad alcun tipo di eccezionalità in termini di razionalità, di istituzioni, di spirito imprenditoriale, di tecnologia, di genialità, di razza, andrebbe invece cercato nel declino dell’oriente. Superando il limite degli studi di area si approderebbe nei termini di uno studio globale in cui è possibile analizzare e comprendere come ciascuna cultura venga modellata dalla rete dinamica di scambi economici, politici, sociali e culturali che forma il sistema-mondo.
Tutti questi autori convergono nell’esigenza di smantellare il mito dell’eccezionalità europea. La proposta di Holdrege nella volontà di superare la cultura dell’egemonia è quella dello studio comparato capace di andare oltre l’eredità culturale del colonialismo.
Proprio lo stesso tipo di domande si pone Daniel Headrick all’inizio del suo testo Al servizio dell’impero.Tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento: qual’è la causa dell’imperialismo? Allo stesso modo egli passa in rassegna il lavoro degli studiosi che lo hanno preceduto, individuando due principali filoni, nei quali si individuano motivazioni politiche come la rivalità internazionale, l’instabilità alle frontiere dell’impero, altri individuerebbero, seguendo J. A. Hobson, motivazioni d’ordine economico come la necessità di materie prime, o di assicurarsi i mercati. Potremmo dire che Headrick a questo punto individua nelle cause politiche le necessità scatenanti del progresso, in quelle economiche le risorse per alimentare un processo in corso: la rivoluzione industriale e il progresso che ne è derivato. Inoltre Headrick individua un motivo comune negli studiosi: essi concorderebbero nell’individuare nella motivazione la leva del processo di espansione. L’autore suddivide i contributi degli studiosi in tre linee: quelli che non tengono in considerazione il ruolo della tecnologia, quelli che lo sottovalutano, e quelli che vi fanno solo un rapido accenno. Nella prima categoria rientrerebbero Roland Robinson e John Gallagher i quali individuerebbero le cause dell’espansione negli intenti. Ancora Henry Brunchwig sarebbe sulla stessa linea, mentre D. K. Fieldhouse individuerebbe diversi piccoli imperialismi collegati tra loro. Tutti però non prenderebbero in considerazione il fattore tecnologico. Altri vi accennerebbero per rifiutarlo, come Hans-Ulrich Wehler e Rondo Cameron. In pratica tutti accennerebbero al tema della tecnologia per passare oltre, come Philip Curtin. La soluzione secondo Headrick starebbe nel suddividere i fattori in motivazioni e mezzi: motivazioni appropriate e mezzi adeguati. Cambiarono dunque le motivazioni e cambiarono i mezzi, e il processo venne a generarsi. A questo proposito vengono individuate tre fasi: una prima di esplorazione da parte dei primi viaggiatori europei, una seconda di conquista dei popoli indigeni, una terza di sviluppo di una rete di comunicazioni. Headrick nel suo lavoro ci porta attraverso lo sviluppo di queste tre fasi, in modo soddisfacente le premesse, vale a dire che il lume guida del suo lavoro di ricerca è la tecnologia. Egli riesce a dimostrare come passaggio per passaggio, la conquista si sia modellata attorno allo sviluppo di mezzi tecnologici adeguati all’impresa coloniale. Così attraverso i temi trattati – il battello a vapore, l’utilizzo del chinino, come strumenti della scoperta, il fucile a retrocarica come strumento di conquista, lo sviluppo delle vie di comunicazione con i nuovi mezzi navali e con la costruzione delle ferrovie, la costruzione del canale di Suez, i cavi sottomarini per le prime telecomunicazioni come strumento di collegamento degli angoli del mondo – compiamo un viaggio ben documentato non solo attraverso un fenomeno come quello del colonialismo, ma attraverso la trasformazione del mondo, cogliendo i vari collegamenti tra le varie scoperte.
Ecco che comprendiamo che i concetti di superiorità appaiono come spiegazioni del tutto simili a superstizioni se messe a confronto ad una ben così calibrata ricerca. Non a caso lo stesso Headrick vi dedica alcune righe in conclusione, quando si parla dell’eredità dell’imperialismo tecnologico (dall’omonimo capitolo) dandone una spiegazione più che condivisibile:
<<L’era del nuovo imperialismo fu anche quella in cui il razzismo raggiunse il suo apice. Gli europei, che nel passato avevano avuto rispetto per alcuni non-europei – specialmente il popolo cinese – iniziarono a confondere livello tecnologico con livello culturale in senso lato, ed alla fine con le potenzialità biologiche. Le facili conquiste avevano deformato persino il giudizio delle élites scientifiche.>>
Non è un tema minore. In realtà la deformazione ha dominato (e forse domina tutt’ora) nelle questioni riguardanti il cosiddetto “Oriente” e la distorsione ha pervaso non solo le descrizioni del mondo conosciuto, ma persino la comprensione di quei “mondi”, eredità tutt’ora non smaltita. Le domande poste in merito all’espansione coloniale non sono esclusive. Mi spiego: potremmo porci le stesse identiche domande in merito all’espansione dell’impero romano, del dominio islamico e così via, spostandoci nella storia e raggiungendo i luoghi del dominio. Ciclicamente, come sappiamo, sono avvenuti domini, certo di diversa entità ed estensione, spesso però riguardavano buona parte del mondo conosciuto, mentre nel colonialismo il mondo conosciuto ha finito per coincidere pressoché col mondo geografico. Forse mettendo a confronto i vari domini verificatisi nella storia noteremmo cose interessanti. E non è difficile notare delle affinità, anche senza approfondire ed entrare in merito alle questioni specifiche, ad esempio tra l’espansione romana e quella dell’impero britannico, stesse esigenze di sviluppare la tecnologia, le comunicazioni, le armi.
Nel testo di Headrick abbiamo l’ennesima conferma che è una concorrenza di fattori, verificatisi in un determinato momento in un determinato luogo a sviluppare un processo come quello di conquista. Egli stesso nel corso della sua ricostruzione ci fa notare come altri popoli contemporanei per esigenze diverse – di difesa in questo caso – abbiano tentato di produrre o di procurarsi gli stessi mezzi degli europei, magari attraverso il mercato, e di non essere comunque riusciti a sviluppare processi analoghi. È il caso delle armi. Questo è il segno che in Europa era in corso un processo che va oltre il possesso dell’oggetto tecnologico. Si tratta di tutto un percorso di sviluppo, di mezzi e intenti, che ha portato alla conquista di parte del mondo ma non solo, ma alla crescita dell’Europa. E questo, possiamo ripeterlo, era già successo altre volte e non è esclusiva dell’Europa. Apprendiamo a questo punto, anche attraverso il testo di Headrick, che l’umanità stessa concorre ai processi storici. Una prova ce la fornisce lo stesso Headrick, sottolineando in conclusione del suo lavoro, sempre in merito all’eredità dell’imperialismo tecnologico, che ciò che resta di questa fase è l’impronta dei mezzi utilizzati nei paesi conquistati, di tutto il resto non c’è traccia, come delle motivazioni o dei valori. Vale a dire che il procedimento ha un futuro in luoghi diversi da quelli nei quali si è generato. È qualcosa quindi di più vivo dell’oggetto tecnologico, è quasi un organismo generante, fatto dei fattori che ne concorrono, il che funziona come un corpo. Conseguenza di ciò è anche l’ulteriore dimostrazione di quanto dicevamo prima in proposito del concorrere dell’umanità: oltre che di concorrenza di fattori si tratta di ispirazione reciproca dell’umanità. Infatti il progresso tecnologico (come forse tutto ciò che nasce dalla mente umana) non è invenzione, ma continua rielaborazione, rielaborazione di qualcosa proveniente da altri luoghi, altre civiltà. Non è una novità. Lo stesso Marc Bloch aveva già parlato di questo fenomeno di “spostamento” e miglioramento delle invenzioni, in due articoli dedicati alla storia della tecnica e delle invenzioni medievali, parlo di “Avvento e conquiste del mulino ad acqua” e “Le <<invenzioni>> medievali”4, in cui egli discute principalmente della bussola e del mulino a vento. Bloch ne parla da un punto di vista più legato alla produzione e ai rapporti sociali, ma è sufficiente a rendersi conto di quando il contributo ai progressi sia molto più esteso del semplice investimento di un gruppo umano. In ogni caso possiamo riflettere su questi punti: occorre certamente immaginare le entità che agiscono nella storia in modo diverso da blocchi impermeabili coincidenti con gli stati. I confini politici hanno forse molta meno importanza degli scambi commerciali e dei rapporti sociali e di produzione. L’umanità non è isolata all’interno delle nazioni al di là del tempo.
In conclusione, questo testo ci offre una panoramica sofisticata del processo coloniale, legata alla tecnica, come abbiamo detto. Il progetto di un’espansione richiede delle possibilità preesistenti e lo stesso intento di espansione può rappresentare un pretesto di sviluppo e ampliamento delle possibilità, in una reazione e ispirazione reciproca. Ciò che da tempo si stava verificando in Europa è ciò che ha dato le basi al colonialismo: la rivoluzione industriale, ma non solo, le varie scoperte che si andavano realizzando. Come abbiamo detto tutto ciò non è avvenuto con il solo sforzo europeo, ma attraverso lo scambio e il flusso di idee e di merci nel mondo conosciuto. Come lo stesso Headrick ha sottolineato: <<Come hanno dimostrato Joseph Needham e i suoi colleghi, sino al quindicesimo secolo la Cina era in testa a tutti paesi del mondo nella maggior parte delle sfere della tecnica>>. Questo lavoro ci permette non solo di comprendere i passaggi attraverso i quali si è costruita l’egemonia e attraverso quali strumenti essa è cresciuta, ma ci offre una visione della storia fatta di concatenazione, di continuità geografica, culturale, storica. Non solo, tutto questo ci offre la possibilità di comprendere anche molto del mondo contemporaneo: assistiamo oggi stesso al cambiamento di posizione e di dominio nel mondo. All’interno di quegli ambiti, “luoghi” frutto dell’esperienza coloniale nelle sue varie fasi, vediamo come si affermino nuove potenze una volta minori o assoggettate. Paesi come l’India e la Cina, oggi all’interno di quei “luoghi” che sono il mercato internazionale, le comunicazioni, l’industria, compiono gli stessi passi delle potenze coloniali e passi nuovi rispetto a queste, portando avanti le “scoperte” del colonialismo. Così comprendiamo le strategie di mercato, di investimento, comprendiamo perché la Cina investe nel debito pubblico americano e perché l’India investe in tecnologie, fondendosi con i dominanti e superandoli. Tecnologia vuol dire potere, sta qui la sintesi, e la volontà di espandersi, il progetto di una crescita viene a confrontarsi con questa realtà. Tuttavia occorre pensare ancora all’Europa non come a un blocco unico, e nemmeno la materia dei singoli stati coloniali assumeva questa forma unitaria: avventurieri, uomini di stato, militari, privati. Dall’altra non esisteva un mondo immobile e sconfitto, l’assenza di iniziativa e la passività. A loro volta gli “invasi” hanno tentato un loro spostamento, ma come già detto, ciò che mancava era tutto un “apparato” della crescita, fatto di mezzi legati al percorso di crescita che l’Europa aveva intrapreso. Ecco che pare semplice immaginare i mondi Oriente e Occidente, concatenati e in continuo spostamento.
Dunque nessuna reale tradizione della superiorità, semplicemente fattori che ciclicamente nella storia e nella geografia del mondo producono effetti di egemonia e di dominio, ma in ogni caso questo è legato a una crescita tecnologica con molteplici ispirazioni.
1. In Verso l’India Oltre l’India. Scitti e ricerche sulle tradizioni in-tellettuali sudasiatiche a cura di Federico Squarcini, Mimesis 2002
2. E. W. Said, Orientalism, Vintage Books, Random House, New York 1978; S. Amin, Eurocentrism, Monthly Review Press, New York 1989
3. Blaut, The Colonizer’s Model of the World. Geographical Diffusionism and Eurocentrism and Eurocentric History, cit., p. 206
4. In Marc Bloch “Lavoro e tecnica nel Medioevo” Editori Laterza