Cosa c’è di più divertente e sano di un ballo che unisce sulla pista diverse generazioni, che inneggia a valori positivi (libertà dei costumi, amore, uguaglianza, allegria e leggerezza nell’accezione suggerita da Italo Calvino non a caso ne Le lezioni americane) e che celebra un ritmo accessibile e piacevole per tutti, senza imporre nel ballo difficoltà eccessive, né maratone anfetaminiche? Al di là delle mode, passeggere per definizione, la speranza è che il periodo vintage che stiamo attraversando lasci in eredità questi contenuti, oltre a bei festival di musica swing e serate rock’n’roll prese d’assalto da giovani e meno giovani alla ricerca di stili e motivetti di un’epoca in cui il buon gusto, musicale e non solo, di sicuro non mancava.
Per far sì, però, che il divertimento modaiolo non passi anche in questo caso invano, sarebbe utile un maggiore approfondimento di tematiche e aspetti musicali e sociali, che per ora non in molti hanno considerato, per accompagnare con maggiore consapevolezza la sacrosanta spensieratezza delle danze. Perché è importante apprezzare e adottare una moda che finalmente valorizza una bellezza, femminile e maschile, che non si quantifica in chili e che non costringe il corpo a sacrifici da tacchi alti e aderenze innaturali, ma nella speranza che anche questo aspetto lasci il segno e faccia controtendenza in maniera duratura, può essere utile contestualizzare e spiegare alcune delle musiche e dei balli più innovativi che la creatività della prima metà del ’900 ci ha regalato.
In effetti un errore o dubbio alberga ancora nella mente di molti di coloro che amano scatenarsi al ritmo swing e nelle coreografie vivaci del Lindy Hop e mi pare giusto sottolinearlo: non state ballando il rock’n’roll e la nostra musica è il jazz (che non esiste senza il blues) allo stato puro! Il nostro ritmo ha molto più a che fare con New Orleans che con Memphis, con Armstrong che con Elvis, con le radici africane della cultura americana, che con la svolta commerciale delle industrie discografiche bianche (che discriminavano i musicisti di colore). La nostra danza ha radici negli USA, ma più nel Fox Trot (definizione utilizzata fino agli anni ’40 inoltrati per definire i balli americani scatenati e “negroidi”, condannati dai fascismi europei), che nel movimento pelvico di Presley.
Qualcuno (Amiri Baraka, passato di recente in Italia per una serie di grandiosi e importanti concerti di jazz poetry, antesignana colta del rap) ha giustamente detto: “se Elvis fu il Re, James Brown allora chi è, Dio?”. Intendiamoci, nulla contro Elvis “the Pelvis” (che divenne egli stesso vittima di una svolta commerciale imposta dall’industria discografica capitalistica WASP), ma diamo a Cesare quel che è di Cesare. E non dimentichiamoci quindi dell’apporto della cultura afroamericana – discriminata legalmente negli USA fino agli anni ’60 del Novecento e senza tutela legale, ma nella prassi, fino ai giorni nostri, come ha dimostrato la vicenda dell’uragano Katrina, che ha colpito la nostra amata New Orleans qualche anno fa -, ad una cultura musicale, che semplicemente non sarebbe potuta esistere senza il blues (l’anima) e lo swing (il ritmo) nero afroamericano. Il Duca Ellington, uno dei più grandi musicisti tout court del secolo scorso, intendeva proprio questo quando cantava che non c’è sostanza, non c’è gusto, non c’è polpa, se manca quel tocco swing, quel ritmo oscillante che ci fa dondolare e muovere la gambetta senza riuscire a stare fermi. Che è la radice ritmica e improvvisativa, il call and response, il movimento e i break, che derivano dalle radici africane degli schiavi esportati a forza negli Stati Uniti d’America da mercanti bianchi europei. Non si può cancellare la storia tragica di questo sterminio (che fa il paio con quello dei Nativi Americani), che è alla base della storia statunitense, nel momento in cui si ama l’arte e la cultura straordinaria che da lì sono arrivati durante il Ventesimo Secolo. Sarebbe immorale dimenticare e sottovalutare la segregazione (erano proibite le orchestre miste), la discriminazione (i musicisti neri erano pagati molto meno degli artisti bianchi), il razzismo (Nat King Cole si trovò più volte all’uscio di casa il minaccioso Ku Klux Klan, ancora attivo oggi, nel 2013, in alcuni stati degli USA), il furto artistico compiuto da molti discografici e musicisti bianchi ai danni degli artisti di colore.
Non sarebbe etico al contempo omettere di celebrare personaggi come Benny Goodman (ebreo di origini russe, che nonostante i divieti introdusse talenti di colore nella sua orchestra swing) e valorizzare il ruolo positivo che ebbero la nostra musica e il nostro ballo nel percorso che portò poi al movimento dei diritti civili degli anni ’60 (quello di Martin Luther King e di Malcolm X, entrambi assassinati nei “civilissimi” USA), che purtroppo riuscì solo parzialmente a modificare la storia a stelle e strisce (e quindi quella mondiale), fino alla sconfitta subita dalle Black Panthers alla fine degli anni ’70. Non si può dimenticare che le ballroom in cui nacque il Lindy Hop erano ad Harlem, cuore nero di New York, città in cui l’eredità dell’impegno politico di jazzisti come Dizzy Gillespie e Charles Mingus, fu raccolta, in un continuum che è la storia alternativa e non ufficiale degli USA, dalla parte più consapevole del funk (James Brown) e poi dell’hip hop (Public Enemy), oltre che dalla Beat Generation (che masticava pane e jazz) e da artisti a loro modo libertari come Jackson Pollock e tutta la scuola dell’Action Painting.
Se vogliamo ballare e ascoltare, divertirci e oscillare al ritmo di questa musica meravigliosa, sarebbe in effetti utile conoscerla maggiormente e riconoscerne le radici, che sono nel blues afroamericano di fine ’800, nella musica di New Orleans di inizio ’900 (dixie, charleston, fox trot), nella svolta di Chicago degli anni ’20 con l’emigrazione lungo il Mississippi di artisti come Louis Armstrong e il suo maestro King Oliver, nel tocco klezmer del King of Swing Benny Goodman. Radici che non sono solo nere, ma anche italiane (La Rocca, un siciliano, fu il leader di uno dei primi complessi dixieland a New Orleans), ebree, slave, rom/manouche (vogliamo parlare del più grande artista jazz europeo di tutti i tempi, Django Reinhardt?). Musica creola per definizione, bastarda, mista e sporca. Se il blues fu la musica del diavolo secondo i nordamericani bianchi, il jazz era senza dubbio la musica dei bordelli (dato che nacque a Storyville, la zona a luci rosse di New Orleans). Non dimentichiamoci di questa “sporcizia”, di questo mix, ballando in tempi in cui si torna a parlare di purezza etnica e gli stereotipi e le leggende urbane sugli stranieri la fanno purtroppo da padrone nei social network. Veniamo da qui, non da un drive in americano degli anni ’50-’60 (in cui in diversi stati ai neri e a volte anche agli immigrati italiani era precluso l’ingresso). Celebriamo con i nostri movimenti in pista e con l’amore per questa musica un ballo meticcio per eccellenza e proprio per questo ancora molto attuale e moderno.
E il rock’n’roll? E il rhythm’n’blues? Musiche amabili, orecchiabili, spassose, ma che sono semplicemente un’altra storia. Una storia in cui la creatività degli artisti venne sempre più assoggettata ai meccanismi commerciali dell’industria discografica (che ad esempio anche al giorno d’oggi costruisce dal nulla personaggi con raffinate e multimediali operazioni di marketing e impone per intero le playlist radiofoniche nelle emittenti commerciali). Una storia che non deve per forza essere condannata, ma che va conosciuta in quanto percorso musicale (ed economico) altro rispetto alla storia del jazz e dello swing (che beninteso fu scritta anche da tanti orchestratori e orchestranti bianchi, come Paul Whiteman). Imparare a distinguere un contrabbasso jazz da un basso elettrico r’n’r, un cantato blues da un ritornello doo-woop, non è da questo punto di vista cosa di poco conto, dato che anche la pista da ballo ha un mondo attorno che continua a girare (e non è la sfera della disco ball) e che vada nel verso giusto o in quello sbagliato dipende anche da noi.
“If I can’t dance, I don’t want to be part of your revolution” (Emma Goldman)