Negli ultimi anni in cui mi sono avvicinato alla fotografia ho avuto modo di conoscere molte persone tra fotografi e addetti ai lavori: la maggior parte delle volte sono io a molestare loro, lo ammetto. Altre volte succedono “incontri” casuali, come quando persone conosciute su instagram (oggi “va” quello per la fotografia) ti contattano per chiedere consigli riguardo la pubblicazione di un libro. Sono passati ormai due anni, il libro è uscito e con l’intervistato di oggi, Francesco Coccoli, non ci siamo ancora incontrati ma abbiamo modo di sentirci molto spesso e spero prima o poi di riuscire a realizzare qualche progetto insieme. Nel frattempo vi auguro buona lettura.

Iniziamo con una domanda classica: chi è Francesco Coccoli?

Sono un romano, classe 1990, con un forte senso di appartenenza al quartiere dove sono nato e cresciuto e da cui mi sono allontanato qualche anno fa, in seguito a scelte di vita più o meno consapevoli che mi hanno portato in alcune delle zone più remote di questo mondo.

Hai da poco pubblicato il tuo primo libro fotografico, Across the Tigris in cui racconti, attraverso scritti e fotografie, la tua esperienza in Rojava. Vorrei farti alcune domande a riguardo.
Innanzitutto: cosa ti ha portato in Rojava? Per chi avesse girato la testa dall’altro lato negli ultimi anni: puoi spiegarci brevemente cosa succede in questa lingua di terra?

All’inizio del 2018 vivevo già da due anni nel Kurdistan iracheno, nel nord dell’Iraq, dove lavoravo come esperto di cartografia e droni. Quando mi è stato proposto di andare in Siria per lavorare con un’organizzazione di sminamento, ho accettato immediatamente: all’inizio di marzo attraversavo per la prima volta il fiume Tigri su una piccola barca stipata di persone e bagagli per approdare in Rojava.

Il Rojava è l’area a maggioranza curda nel nordest della Siria, guidata da un’amministrazione autonoma strutturata su un modello di società inclusiva e partecipativa, e che ad oggi copre quasi un terzo del territorio siriano.

Dopo essersi riscattato dall’oppressione della dittatura, il Rojava ha dovuto far fronte a una serie di forze esterne e brutali, dai terroristi di Al-Nusra e ISIS fino alle continue aggressioni del regime turco. Dopo un periodo di grande entusiasmo e attenzione internazionale, quando i combattenti curdi (e non solo) del YPG e YPJ combattevano eroicamente contro l’ISIS a Kobane alla fine del 2014, il Rojava è stato gradualmente dimenticato ed abbandonato al suo destino: nel 2019 gli americani, unica forza di interposizione tra i curdi siriani e i fascisti turchi, hanno abbandonato in gran parte l’area e, di conseguenza, hanno permesso la seconda invasione turca in Siria (la prima era avvenuta l’anno precedente ad Afrin, regione curda nel nordovest).

Oggi il Rojava è ancora sotto attacco da parte dei turchi e dei mercenari islamici di cui si servono, di cui molti ex militanti dell’ISIS, nel completo silenzio dei media internazionali.

Nel tuo libro si alternano brevi scritti, come quello bellissimo in cui racconti dell’importanza delle immagini, ad alcuni scatti in bianco e nero. Personalmente credo che gli scritti siano necessari a spiegare la tua scelta delle immagini ed il loro ordine. Quello che vorrei chiederti è: perché hai preferito affidare il racconto alle immagini? In alcune descrizioni, come quella del Tigri, parli di sabbia e vegetazione mentre nella scelta delle immagini hai volutamente optato per un bianco e nero molto netto, delineato. Cosa ha motivato questa scelta?

Le immagini hanno un impatto più immediato rispetto a un testo. Per molti l’immagine della Siria, e del Medio Oriente in generale, è modellata sulla narrazione dei media tradizionali, interessati a mostrare solo la tragedia, i morti, la guerra. I siriani sono sempre rappresentati come vittime inermi di un gioco più grande di loro, non come i protagonisti di una lotta spaventosa a cui non si sono mai sottratti. Mi piace pensare che le foto racchiuse nel mio libro possano contribuire, nel loro piccolo, ad un racconto onesto del Rojava, rifiutando un approccio sensazionalistico per uno più intimo.

La scelta del bianco e nero delle immagini invece è venuta da sé: da una parte sono stato ispirato dal lavoro di Sean Sutton, fotografo di guerra con cui ho passato del tempo mentre lavoravo a Raqqa, dall’altra il senso di estemporaneità del bianco e nero si presta perfettamente a rappresentare l’atmosfera malinconica che si respira sulle polverose strade siriane.

Oserei quasi dire che il tuo libro, oltre a essere fotografico, parla anche di fotografia: immancabile, parlando di Rojava, il riferimento al culto delle immagini dei Martiri e di Ocalan. Immancabili anche le foto di armi, che ricorrono per tutto il racconto. Facendo un breve parallelo, molto forzato, quali sono state le tue “armi”? Quali macchinette ti hanno accompagnato in questo viaggio e, soprattutto, hai avuto difficoltà nel realizzare gli scatti?

Prima di tutto vorrei specificare che, se nelle mie foto compaiono armi, non è per seguire quel filone di voyeurismo della violenza che va tanto di moda nella fotografia contemporanea: le armi in Siria sono ovunque, nelle case, nei negozi, per strada. Per farti un esempio, Mr. Ibrahim, gioviale fruttivendolo da cui mi recavo ogni settimana per fare la spesa, portava sempre con sé una pistola e non mancava mai di tirarla fuori per scherzare.

Per quasi tutte le foto ho utilizzato una macchinetta compatta, ancora oggi la mia preferita: una Ricoh GR II, comprata durante un breve soggiorno a Londra prima di rientrare in Siria. Fino ad allora avevo scattato centinaia di foto con un vecchio cellulare, ma ho realizzato che non mi bastava più e che avevo bisogno di uno strumento in grado di rendere giustizia alla realtà che mi circondava.

Mi sono sempre sentito a mio agio mentre scattavo, rassicurato dall’ottimo rapporto che avevo creato con la gente del posto. Non giravo mai da solo, spesso ero in compagnia di Azad, un mio grande amico curdo e tra i protagonisti del libro. Ho sempre cercato di non essere invadente, di rispettare le emozioni di chi avevo di fronte, che si trattasse di gioia o di lutto.

Tenevo sempre a mente che ero lì per lavorare e non per soddisfare le mie velleità artistiche, e nei momenti più “tesi” la macchinetta era l’ultima cosa a cui pensavo, conscio di avere una responsabilità non solo verso me stesso, ma soprattutto verso il mio team. Errori stupidi non erano ammessi.

Perché hai scelto proprio il “libro fotografico” come medium per veicolare questa storia? Quanto tempo ti ha sottratto il lavoro sul libro tra tagli, post-produzione, impaginazione e testi? Hai pensato di proporlo a qualche casa editrice o hai voluto inizialmente affidarlo a canali indipendenti?

Sono sempre stato affascinato dal formato dei libri di illustrazione e delle graphic novel, con le copertine rigide e le pagine leggermente ruvide, e da tempo mi sarebbe piaciuto creare qualcosa di simile: quando mi sono reso conto del numero importante di foto che avevo scattato nel corso di quasi due anni, la scelta di raccoglierle in un libro è stata naturale.

Ho lavorato al libro per circa un anno, dedicandogli la maggior parte delle notti e dei weekend. All’inizio non avevo idea di cosa volesse dire produrre un libro fotografico completamente da solo: ho dovuto imparare a usare Indesign, a lavorare su design ed editing, ho passato ore in biblioteca a studiare i vari tipi di carta, copertine e font. Ho creato le mappe e scritto i testi, scelto la posizione e la dimensione giusta per i numeri di pagina, disegnato una copertina e una sovracopertina. Insomma, un lavoro davvero lungo e che, per ignoranza, avevo sottovalutato.

Ho provato a proporre il libro ad alcuni editori ma, dopo alcuni rifiuti e discussioni deludenti, ho preferito intraprendere la strada dell’autopubblicazione, troppo impaziente per sottostare ai tempi dell’editoria tradizionale e ai dettami del mercato. Inoltre, per me era fondamentale produrre un lavoro di qualità ma ad un prezzo accessibile: non potevo chiedere ai miei amici di pagare 50 euro per un mio libro!

Pubblicare attraverso un editore avrebbe sicuramente facilitato la distribuzione e alleggerito il mio carico di lavoro, ma avere tra le mani il frutto concreto del proprio impegno è una grande soddisfazione.

A distanza di poche settimane dall’uscita del libro, che riscontri stai avendo? Credi che sia un argomento di cui si possa parlare o subirà qualche forma di censura?

In generale sono molto soddisfatto, il libro è piaciuto: la versione italiana è andata soldout dopo meno di un mese (anche se ovviamente stiamo parlando di una pubblicazione a tiratura limitata, eh!) e ho ricevuto ordini da Stati Uniti, Sudafrica e Australia, oltre che da quasi ogni paese europeo. Ho lasciato delle copie agli amici del centro curdo Ararat a Roma, e a breve spero di riuscire a spedirne alcune ai miei compagni in Rojava, a cui il libro è dedicato.

Rischio di censura sicuramente non ce n’è, magari la prossima volta che dovrò fare scalo in qualche aeroporto turco sarò meno rilassato del solito…

Come hai affrontato il ritorno a casa dopo questo viaggio? Posso dire, con certezza, che non hai abbandonato la fotografia e nonostante il work in progress ti sei subito buttato in altri progetti. Vuoi presentarci qualche altra pubblicazione?

Dopo la Siria mi sono trasferito in Svizzera, dove risiedo attualmente. È stato un cambiamento difficile, pieno di alti e bassi, a cui non credo di essermi ancora completamente abituato.

La fotografia è stato un modo come un altro di occupare tempo e mente, e nell’ultimo anno ho prodotto un paio di zine fotografiche, un po’ per gioco, un po’ per studiare formati e supporti cartacei proprio in vista della pubblicazione del libro.

Nella tua prima pubblicazione unofficial, hai voluto mantenere il bianco e nero come segno distintivo, ispirandoti chiaramente ad un film in cui la guerriglia, seppur di altro genere, viene trasportata nel contesto urbano. Si può dire che la tua fotografia sia schierata?

La mia prima zine, L’AMOR, è un tributo al mio quartiere e al mio film preferito, La haine, quindi il bianco e nero era d’obbligo! Se intendi schierata politicamente, non credo che la mia fotografia lo sia. Credo sia soltanto un modo di raccontare la realtà intorno a me, che siano le strade del mio quartiere o quelle del Rojava.

Queste pubblicazioni portano il nome di Cemento. Ti va di presentare questa realtà? Perchè e in che modo nasce questa esigenza di ritagliarti uno spazio fotografico?

Il nome Cemento viene dal fascino che hanno sempre esercitato su di me i palazzoni come quelli tra cui siamo cresciuti, dall’innegabile influenza del contesto urbano sulla mia identità.

A essere sincero, però, non c’è un vero e proprio progetto dietro. Più che altro è uno spazio dove raccogliere le foto che mi piacciono di più e sperimentare con i colori, con grande tranquillità, con i miei tempi, senza lo stress dei followers e dell’hashtag giusto.

A chi si rivolgono in particolare le tue pubblicazioni? Credi che ci sia una scena fotografica in cui vuoi ritagliarti uno spazio o preferisci farti strada in qualche altro modo?

Non credo di rivolgermi a qualcuno in particolare, e fare strada in questo mondo non è il mio obiettivo. Il libro è nato dalla necessità di raccontare una storia che mi sta particolarmente a cuore e che era importante per me poter condividere al di fuori di Instagram.

Cartaceo o digitale? Come preferisci far circolare il tuo materiale?

Sicuramente cartaceo! Mi piace poter toccare le foto, sentire la ruvidità della carta sotto le dita. Credo che la stampa dia una dignità alle immagini e al loro significato che viene completamente meno nel digitale, soprattutto sui social media: per condividere una foto su Instagram bastano due minuti, per pubblicare qualcosa su carta servono tempo e dedizione.

Che progetti hai per il futuro? Continuerai con la fotografia o pensi di abbandonarla?

In questo periodo non sto scattando nulla, le poche volte che esco di casa non porto più la macchinetta con me, ma conoscendomi so che è a causa di una mancanza di motivazione solo temporanea. In realtà ho in mente un progetto abbastanza chiaro per un altro libro fotografico, stavolta in Italia, ma finché dura questa pandemia sarà impossibile realizzarlo come voglio. Per ora non faccio piani e affronto la vita un giorno alla volta.

Credo di aver finito le domande. Mantengo l’ultima, molto aperta, per darti spazio: c’è qualcosa di cui vuoi parlare e che posso aver dimenticato? Dove possiamo seguirti e vedere i tuoi scatti?

Su Instagram mi potete trovare sul mio profilo personale, dove fino all’anno scorso condividevo foto del Rojava, e su Cemento, un profilo coloratissimo proprio come me.

Ma soprattutto compratevi il libro su www.acrossthetigris.com, ne vale la pena e vi costa meno di un’ubriacatura seria!

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