Nel tuo curriculum compaiono grandi nomi della fotografia, hai un sacco di timbri sul passaporto e le tue foto sono state usate da un sacco di giornali. Ciao Erik, ti va di presentarti ai lettori del Malpensante?
Che dire di me? Sono una persona riservata che crede nel proprio lavoro. Ho sempre cercato di non apparire ma di mostrare le mie immagini, essendo un figlio del secolo scorso sono cresciuto credendo che la fotografia sia un mezzo per comunicare quello che vediamo e che viviamo.
Come ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
Mi sono avvicinato alla fotografia quasi per caso, essendo timido e riservato. All’inizio era per me un gioco e una scusa per rimorchiare ragazze, poi si è trasformata in una passione travolgente. Ho iniziato girovagando nei fine settimana con un paio di amici, sempre con la macchina fotografica al collo, realizzando scatti di quello che mi colpiva e che era gradevole al mio sguardo. Il tempo mi ha portato a realizzare alcune pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali di viaggi e viaggi enogastronomici: crescendo come fotografo e come persona ho richiesto sempre di più dalla mia fotografia. Mi sono accorto che si può raccontare attraverso le immagini, così mi sono dedicato a quello che mi intrigava di più, la fotografia in aree difficili.
Analogico o digitale? Quali sono le tue armi sul campo?
Nasco analogico e mi evolvo in digitale, tutt’oggi scatto in analogico, ma per esigenze lavorative uso molto il digitale. Personalmente credo che sia solo il supporto diverso, la fotografia la fa la sensibilità e creatività del fotografo. Ho avuto la fortuna di essere studente di alcuni maestri della fotografia di reportage, e successivamente di crescere come fotografo e come uomo lavorando con altri mostri sacri, da loro ho imparato che un fotografo deve vedere e non limitarsi a guardare, un fotografo deve scattare per comunicare, non pensando a quanti like farà sui social. Per me sta tutto qui.
Molto spesso il tuo nome viene accostato al collettivo CAPTA, di cui sei anche cofondatore. A questo punto vorrei chiederti: cosa porta un fotografo ad entrare in un collettivo, anzi a fondarlo? Solo la comunità in una pratica o in un progetto o c’è dell’altro?
Ho passato la prima fase della mia carriera correndo su e giù per il mondo, producendo immagini, poi ti accorgi che da solo non riesci a produrre qualità; per diversi e svariati motivi, dal mondo editoriale che è cambiato radicalmente in pochissimo tempo ad una crescita personale che mi ha portato a focalizzarmi su racconti a medio e lungo respiro. Da qui l’esigenza di fare un passo indietro, tornare all’origini dove il fotografo scatta, il photoeditor seleziona le immagini, lo stampatore stampa le immagini e così via. Avere il tempo di fare quello per cui siamo preparati e mettendo in campo le nostre professionalità: con questo metodo di lavoro sono tornato ad essere concentrato sul mio lavoro. CAPTA è questo, un collettivo di persone che mettono a disposizione le proprie capacità per realizzare un progetto fotografico che rimane, che centra l’obiettivo di comunicare in modo corretto.
Ti va di raccontarci come nasce CAPTA?
CAPTA nasce 7 anni fa, ad un tavolo di un caffè in Francia. Durante uno dei Festival sul Fotogiornalismo più importanti al mondo, sei amici (alcuni fotografi, project manager, photoeditor) si sono trovati ad un tavolo, davanti a birra e pastis. Ci siamo confrontati sulle difficoltà, sui successi e sui fallimenti della nostra professione, e abbiamo capito che avevamo tanto in comune. Così è nata l’idea. Abbiamo provato senza darci aspettative, ma lavorando e mettendoci in gioco seriamente. I primi anni sono stati di assestamento per capire se stavamo facendo bene, se insieme potevamo funzionare ed eccoci qua.
A cavallo tra l’italia e l’inghilterra. Come è la vita del fotoreporter?
La vita da fotoreporter è sempre frenetica. Amo l’Italia perché è un paese meraviglioso, con mille difetti ma milleuno pregi; mi piace il Regno Unito perché professionalmente è appagante, ti offre tantissime possibilità, quello che fai a Londra in una settimana altrove richiede un paio di mesi. Inoltre logisticamente Londra ha cinque aeroporti che ti portano ovunque, collegata all’Europa tramite l’Eurotunnel: per noi è veramente importante essere efficienti limitando tempi per gli spostamenti.
Alcuni dei tuoi reportage sono stati molto movimentati: vorrei citare Ucraina, Kosovo, Albania – dove, se non ricordo male, te la sei vista molto brutta -, Chernobyl e Parigi nel pieno delle manifestazioni dei Gilet Gialli. C’è mai stato qualche momento in cui hai pensato di trovarti un lavoro tranquillo?
Onestamente no, non credo di essere in grado di fare altro. Anche se mio padre continua a chiedermi quando mi trovo un lavoro serio.
Scherzi a parte, ti va di raccontarci la peggiore situazione in cui ti sei trovato o di condividere qualche momento in cui hai davvero pensato di mollare tutto?
Nel nostro mestiere ci sono momenti di scoramento che ti portano a pensare di mollare tutto. Onestamente non è mai stato per le situazioni che ho vissuto (che fanno parte del nostro mestiere), ma magari per alcuni fallimenti dove non si è riusciti a centrare il fuoco della storia, vanificando la possibilità di far emergere una condizione sociale, per non parlare degli sforzi di altre persone che vengono vanificate per questo.
Tra i lavori più tranquilli invece, personalmente, ho un debole per ON MY SKIN ma vorrei chiederti: come fai ad adattarti ai contesti da raccontare? In questo set in particolare, come hai fatto a trovare la fiducia dei soggetti e come li hai convinti a farsi fotografare?
ON MY SKIN è un progetto a cui ho dedicato 3 anni, posso assicurarti che non è stato tranquillo. Ho passato più tempo a guadagnarmi la fiducia delle persone che potevano darmi l’accesso a quel mondo, ancora sconosciuto, dove ho avuto la fortuna di poterlo guardare da dentro. Non c’è un modo prestabilito per farsi accettare, è una questione di come e quando moversi in base al contesto. Ogni progetto è a sé stante, ma anche ogni persona che incontriamo è unica e quindi il mio primo comandamento è essere rispettosi e onesti, per poi giocarsela.
Ma ci sono stati anche lavori meno movimentati come Human Pups, Romagna Mia e il recentissimo Drag Syndrome. Ti va di parlarci anche di questi progetti?
I miei progetti li vivo tutti con l’intento di raccontare quello che vedo e che mi interessa: da dentro posso dire ogni progetto è faticoso se si mette impegno e dedizione. Certo non sono lavori rischiosi, ma sono impegnativi sotto altri aspetti, come quello di essere catapultati in mondi nuovi dove la nostra cultura o moralità fa fatica a ritrovarsi. Human Pups è un progetto che nasce sotto traccia: questo fenomeno era sconosciuto, con caparbietà e mesi (tanti mesi) di lavoro di squadra siamo riusciti ad entrare in questo universo inesplorato. Riguardo a Romagna Mia, credo sia stato uno dei periodi più belli della mia carriera, un anno in Romagna per una pubblicazione su National Geographic Italia. Un anno intenso vissuto con persone prima sconosciute, poi diventate persone amiche (ma vere davvero), un anno di risate e gioie e sacrifici, un anno intenso. Drag Syndrome è uno degli ultimi progetti, è una sfida personale a voler scardinare alcuni luoghi comuni radicati nella nostra società. Il voler portare lo sdoganamento di certi “tabù” con una informazione che accende il meccanismo del pensiero e guardare le cose da un altro punto di vista.
Personalmente, quale è stato quello a cui ti sei maggiormente appassionato?
“Ogni scarrafone è bello a mamma soja”. Ad ogni mio progetto devo tanto, perché ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa che ogni giorno riscopro.
Di recente hai raccontato la tua Reggio durante la prima ondata della pandemia. Avevi mai visto la tua città così vuota? Che effetto ti ha fatto?
Vedere i luoghi della mia infanzia, che hanno lasciato un segno indelebile nella mia memoria, oggi, colpiti da questa emergenza, mi fa davvero un effetto strano. Credo che farò fatica a ricordarmeli com’erano: la tristezza e la malinconia, sono sincero, prevalgono. Incontrare da lontano per strada e sfuggita vecchi amici, mentre sono in giro solo per comprare beni di prima necessità, e scambiare con loro un saluto stando dall’altro lato del marciapiede… beh, mi fa riflettere tanto.
Durante questi mesi di chiusura il mondo dei fotografi si divideva tra chi decideva di stare in casa e chi doveva a tutti i costi raccontare. Tu forzatamente ti sei trovato nella barricata di chi ha raccontato. Cosa ha significato per te questa esperienza? Credi che questi mesi di clausura, al netto di curve e contagi, saranno serviti a qualcosa? Ritorneremo come prima o ci porteremo dentro qualcosa?
Io rispetto la posizione di tutti, qualunque essa sia. Per me non è più bravo o più coraggioso chi ha continuato a lavorare nel periodo più caldo, per me esiste una scelta professionale e difendo chi ha deciso di astenersi, perché dietro alle decisioni di questo tipo ci sono aspetti personali (che devono rimanere tali) e professionali che vanno rispettati. Se ritorneremo come prima? Non credo, ogni esperienza di vita ci cambia; speriamo di prendere i lati positivi e di correggere i lati negativi in tutto questo, ma non credo che questo periodo scivoli addosso ai noi e alle prossime generazioni.
Da fotografo, di quelli che sta sempre in mezzo alla scena, ti va di dare un consiglio a chi si avvicina da poco al settore della fotografia sognando l’azione? Quali potrebbero essere le scelte da fare sin da subito per diventare un fotoreporter?
Per chi vuole affacciarsi a questa professione consiglio di farlo seriamente, preparandosi e cominciare gradatamente: una foto non è più bella perché si è in mezzo all’azione. Per me è una fotografia è vincente quando arriva un messaggio chiaro e forte, il messaggio che vogliamo comunicare.
Erik e i social: che rapporto ha un fotografo di professione con i social? Li usi? Preferisci i canali ufficiali?
Il mio rapporto con i social è giurassico. Sono uno strumento importante ma li vivo per quello che sono, un ulteriore spazio per condividere immagini.
Credi che i social, ad esempio instagram che è incentrato sull’immagine, abbiamo contribuito in qualche modo a ridefinire la fotografia?
I social hanno cambiato fortemente la percezione delle immagini, in positivo ma anche in negativo. Per la fotografia è uno strumento di comunicare qualcosa, con i social la fotografia è diventato un modo di esporci e diventare il soggetto (direttamente o indirettamente). Con i social abbiamo amplificato il nostro “guardare” e diminuito il nostro “vedere” le cose che ci circondano. Non pensiamo prima di scattare, ma prima di “pubblicare”, condizionati dal nostro gusto estetico e non da cosa comunichiamo a chi guarderà l’immagine. Un’altra cosa interessante è questa incertezza: di questi miliardi di immagini che vengono scattate quotidianamente, rimarrà una traccia? Tempo fa ho trovato in soffitta vecchi album di foto scattate in vacanza con i miei genitori, e ho trovato un senso di memoria: le generazioni future avranno la stesa fortuna di rivedersi nel domani?
Ci avviciniamo alla fine… a questo punto vorrei chiederti: stai lavorando a qualche nuovo progetto? Ti va di farci qualche anticipazione?
Sto lavorando su diversi fronti, ma è tutto così volatile in questo periodo. Preferisco non fare anticipazioni. Porta male.