Ormai qualche giorno fa Emanuele Trevi annunciava di lasciare la Giuria dello Strega e La Repubblica approfondiva la questione con un’intervista. Trevi giudica il premio ormai pilotato dalla corruzione delle case editrici e non orientato quindi alla valutazione della qualità reale delle opere letterarie. Faccio fatica a credere che dal 1994, anno in cui inizia a far parte della giuria dei 400 Amici della Domenica, solo oggi, Anno Domini 2013, Trevi si sia accorto dei meccanismi che animano la cultura “letteraria”. L’intervista mi smentisce: egli afferma, infatti, di aver sempre pensato queste cose. Cosa denuncia Trevi in sostanza? I punti sono pochi ma importanti: i candidati sono stabiliti dalle case editrici, molti giurati sono stipendiati dagli editori, i quali gli chiedono poi il voto, le piccole case editrici avrebbero poca influenza, per ovvi motivi, e il voto segreto permetterebbe di assegnare anticipatamente le preferenze. Ci sono poi aspetti che lasciano ancora più perplessi: i giurati vengono contattati telefonicamente per chiederne il voto, telefonate “pietose” nelle quali “ Si arriva persino alla maldicenza, […] nelle telefonate trapelano minacce”. Parole di Trevi. Cosa propone in alternativa? Voto palese, fuori i giurati stipendiati dagli editori, scelta dei candidati da parte dei giurati, e lasciare fuori l’influenza degli editori dal premio, i quali si muovono solo su criteri di marketing. Insomma “Criteri di qualità e non di mercato”. In conclusione all’intervista troviamo le parole testuali: “Lo Strega va sottratto alla logica del mercato e al mondo del potere, dal quale finché possibile voglio vivere al riparo. Desidero che le cose che faccio mi assomiglino. E poi le cose belle sono disinteressate”. Batte la lingua sul tamburo? Affatto, l’analisi di Trevi è più che sensata, ma riduttiva. Gli editori sono delle aziende e nella loro attività non è prevista un’etica. Nessun editore sarebbe attualmente disposto a muoversi sulla linea del valore intellettuale piuttosto che del lucro. E del resto come pretendere il contrario? C’è di mezzo la sopravvivenza economica, la loro stessa esistenza. Un evento come lo Strega, che ha così grande risonanza, non può che essere un terreno fertile per promuovere i propri prodotti, quindi assolutamente appetibile per un’azienda che di quei prodotti si occupa. Ma gli editori producendo libri si occupano, di fatto, di cultura. E fanno cultura. Infatti ciò che noi leggeremo e sceglieremo dipende dalle scelte di queste aziende. Ovviamente questo avviene anche in quei luoghi in cui quei prodotti vengono discussi, come lo Strega, ed è ingenuo meravigliarsi. La domanda che dovrebbe forse porsi Trevi non è piuttosto: come mai l’esistenza o meno di un libro o di un autore è affidata esclusivamente agli editori? Per quale motivo accettiamo tranquillamente il fatto che se un editore non punta su uno scrittore rischiamo di non conoscerlo e di lasciarlo scomparire nelle sabbie del tempo? E perché non esistono premi di una certa risonanza che si basano esclusivamente sul valore intellettuale delle opere? E soprattutto, se i suoi dubbi sono così forti, perché non creare un circuito alternativo ed etico? Ma resta ancora una domanda: accertato da una giuria imparziale il valore intellettuale di un’opera, chi sarà disposto a produrla, se questa non presenta caratteristiche che possano far pensare a un buon successo editoriale? È questa la situazione in cui versa la cultura contemporanea: fare i conti sempre e comunque con il mercato, perché il mercato è vita, da questo cioè dipende la sopravvivenza di ogni cosa. È la posizione che gli abbiamo assegnato.
Provare a invertire la rotta è necessario, e forse abbiamo aspettato troppo. Non abbiamo bisogno di altre motivazioni ed analisi, l’operato dell’industria culturale si riassume bene nelle parole di Adorno: “ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di eguale”. Per questo la decisione di Emanuele Trevi e le sue motivazioni hanno il sapore di una non notizia.

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