Ci sono persone che conosci in periodi della vita sbagliati e che ritrovi a distanza di tempo e con i quali scopri passioni, e odio, in comune. Con una di queste, Cosimo Calabrese, ci siamo ritrovati a distanza di anni, dalla stessa parte della barricata, a parlare di fotografia e della nostra città, e parte di queste chiacchiere le ho volute riportare in questa intervista nella speranza di trovarci a scattare il prima possibile.
Partiamo dalle domande classiche: chi è Cosimo? Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Sto cercando ancora di capire chi sono, direi che questo è uno di quei periodi in cui mi ci sto impegnando molto, ma il risultato è solo una grande confusione. Va detto comunque che il caos è un contesto in cui mi trovo piuttosto bene.
A differenza dei fotografi, quelli veri, che hanno trovato in casa la fotocamera del papà (mai della mamma, che nell’immaginario dei fotografi veri, si sa, è buona solo per stirare e chiavare) e hanno iniziato a produrre dei capolavori già in tenera età, per me il percorso è stato un po’ diverso.
Il primo ricordo legato alla fotografia è di un me molto annoiato che tira fuori fotografie, album e ritagli di giornale da un cassetto, distribuisce tutto alla rinfusa sul pavimento e, mentre cerca di capirci qualcosa, finisce per mutilare e danneggiare irrimediabilmente il fondo fotografico di famiglia.
Bresciano di nascita, tarantino di adozione. Il tema “Taranto” ricorre da sempre nei tuoi scatti, non ultimo il reportage uscito per Witness Journal. Come descriveresti Taranto?
Qui posso darti una certezza: sono tarantino di nascita, ma ho vissuto per 18 anni in Lombardia. Poi sono tornato a Taranto e ci sono rimasto. Faccio fatica a parlare della mia città senza essere retorico, quindi lo sarò e dirò che Taranto è il posto che mi ha insegnato l’essere a casa in ogni luogo, con ogni persona e in ogni situazione.
Secondo te il posto dove “cresci” influenza in qualche modo il tuo modo di scattare?
Sono cresciuto in un paese della pianura padana dove la gente si svegliava alle 7 per andare a lavorare e alle 19 era tutto chiuso. Non so se questo abbia influenzato il mio modo di vedere e di fotografare, sicuramente ha prodotto un rifiuto verso questo tipo di realtà e questo modo di pensare la vita.
Negli anni hai avuto un rapporto intenso con la fotografia: ne hai parlato e ne hai fatta anche molta. Attualmente fai il fotografo di professione. Che significa oggi fare il fotografo?
Lavorare con la fotografia, soprattutto lontano dai grandi centri, significa avere a che fare spesso con cose che con la fotografia non hanno molto a che fare. Capita che hai a che fare con persone che hanno come riferimenti visuali più alti le loro stampe su tela con desaturazioni parziali prese in qualche ipermercato e illuminate a giorno con un neon. Spesso cercano di trascinarti in questo loro ideale di bellezza, a volte ci cadi e finisci imbruttito.
Cammini costantemente sull’orlo dell’abisso dove la fotografia diventa un lavoro come un altro, una routine, una serie di prescrizioni e di numeri. Cerchi di starne alla larga il più possibile; a volte viene voglia di ribaltare il tavolo e di mettere tutti al muro. A volte è necessario e qualche volta trovo anche il coraggio di farlo.
In passato hai avuto modo di sviluppare un tuo stile fotografico indirizzandoti su temi sociali ed in particolare sulle migrazioni. Sei stato a Idomeni, hai raccontato la “route” dei migranti attraverso i Balcani. C’è qualche altro progetto di cui vuoi parlare? Credi che la fotografia possa avere un ruolo nel raccontare il mondo di oggi?
Non credo di poter parlare di uno stile fotografico mio. Sperimento molto e mi capita di perdermi nelle sperimentazioni. Dopo il lavoro sulla Black Route dei Balcani mi sono allontanato dal fotogiornalismo per esigenza di trovare nuovi modi di guardare e interpretare le cose. Avevo bisogno di liberarmi dagli schemi, di conoscere nuovi linguaggi e di sbagliare il più possibile. Ho ripreso a studiare fotografia e ho avuto la fortuna di trovare un percorso che mi ha permesso di tornare a fotografare con gioia e inconsapevolezza.
La fotografia sicuramente ha un ruolo importante, se non altro perché la usiamo tutti, ognuno a modo suo. Trovo che tutti i modi di raccontare con la fotografia siano interessanti, indipendentemente dal mezzo. Mi capita di vedere cose interessanti sia negli angoli più remoti dei social che in percorsi istituzionali come gallerie o musei.
In passato abbiamo avuto modo di parlare in diverse occasioni di attrezzi fotografici, vorrei rilanciarti una domanda che personalmente faccio spesso: trovi che l’avvento della tecnologia abbia cambiato il modo di fare fotografia? Se sì, in che modo?
Credo che sia piuttosto ovvio che qualsiasi tecnologia sia in grado di cambiare il suo campo di applicazione. Non guardo molto come cambia il modo di fare fotografia, mi interessa di più come viene fruita. E oggi siamo un po’ tutti al tavolo del ristorante come il signor Creosoto. Credo che, in fondo, sia una situazione divertente.
Molto spesso si pensa che basti una reflex per fare il fotografo e si cede alla logica del “lo può fare anche mio cugino”. Cosa consiglieresti a chi si avvicina al mondo della fotografia? Quali consigli dai e quali atteggiamenti invece sconsigli del tutto?
Non credo di essere in grado di dare consigli, anche perché, poi, si finisce nel tritacarne delle cose tipo “l’attrezzatura non conta”, “guarda tante immagini” o “trova la tua voce”. Credo che, anche in fotografia, ognuno abbia il suo modo di affrontare il suo percorso e i suoi obiettivi. L’importante è essere sinceri con sé stessi riguardo a quello che si vuole ottenere attraverso la fotografia (e alla fine nel tritacarne ci sono caduto).
Secondo te quale è in canale migliore per far circolare dei lavori fotografici?
Dipende dagli obiettivi che hai. Se vuoi riconoscimento sociale e devi darti un ruolo nella vita ci sono tanti fantastici gruppi di e per gente così. Se vuoi fare il fotogiornalista impegnato puoi trovare tante storie strappalacrime da prendere e sbattere su qualche magazine online. Se vuoi finire in galleria credo che i culi da baciare non scarseggino neanche durante una pandemia.
Ultimamente il mondo fotografico, con l’aiuto dei nuovi media, si è frammentato in una galassia di microrealtà, alcune non superano i due anni di vita, altre vengono assorbite da realtà più grandi. Molto spesso queste nicchie vengono definite dalle tematiche che sono al centro della ricerca che portano avanti. E così abbiamo dei canali che parlano solo di ritorno all’analogico, dei canali in cui si parla solo di nudo, altri di editoria indipendente…in altri si parla di arte. Secondo te c’è ancora spazio per l’arte in fotografia? E tu, a quale galassia pensi di appartenere?
Non riesco a darmi una definizione e quindi neanche a definire un’appartenenza a qualche galassia. Forse la verità è che non me ne frega un cazzo di definirmi o di appartenere a qualcosa. Cerco di trovare il tempo per fare le mie cose, strappando più tempo possibile al lavoro commerciale. Guardo tante immagini e a volte cado nel cliché di copiare cose che ho visto. Ecco, forse l’unica cosa che mi importa è essere consapevole di quando mi capita.
Di recente ci siamo trovati davanti ad una pandemia che, forse, nessuno avrebbe mai immaginato. Secondo te questa situazione in che modo ha influito sulla società?
Siamo sempre più isolati e costretti a vendere la nostra immagine e pezzi della nostra vita per avere il privilegio di pensare di essere qualcosa. Jusqu’ici tout va bien.
Sempre parlando del covid, ci sono stati due grandi filoni di fotografia: chi diceva di stare in casa e chi voleva a tutti i costi raccontare. Tu in quale dei due ti inseriresti?
Non lo so, se c’è il filone di quelli che non hanno sentito l’urgenza di raccontare nulla mi inserisco lì.
Di recente stai lavorando a qualche progetto?
Sto cercando di chiudere un progetto su Taranto che ho iniziato da un paio di anni e pensando a qualcosa di nuovo da produrre. Negli ultimi mesi mi affascinano molto le immagini in movimento, quindi vorrei cambiare linguaggio e sperimentare senza troppi vincoli.
Intervista finita, vorrei lasciare un angolo aperto per qualsiasi altra cosa di cui vorresti parlare, sentiti libero.
Dico che voglio tutte le lettere che c’avete voi in corte d’assise, voglio la libertà di andare alla banca e alla posta, poi ci sarà il signore che colpirà il signor Canessa con un malaccio inguaribile (cit.).