È nota l’incidenza dei collaborazionisti baltici e ucraini nella Shoah: senza il loro contributo non si sarebbero potuti consumare i crimini di guerra dell’Operazione Barbarossa. In Lettonia, Estonia e Lituania, dopo l’occupazione sovietica del 1940 e le deportazioni di massa in aree isolate della Russia, si verificò una diffusa complicità con la Germania nazista e furono molti i locali che si allearono con le SS e con altri corpi militari tedeschi sperando di ristabilire degli Stati indipendenti; lo stesso avvenne in Ucraina, segnata dalla dekulakization e dal Голодомор, cioè dalla collettivizzazione forzata delle terre e dalle “carestie staliniane”.

Vi sono alcune stragi emblematiche che mostrano la gravità e l’ampiezza di quanto accaduto nei primi anni ’40 del secolo scorso in quei Paesi: Odessa, Babij Jar e Berdyčiv in Ucraina, Liepāja e Rumbula in Lettonia, Paneriai e Kaunas in Lituania, Klooga in Estonia.

A Vilnius, detta “Gerusalemme del nord”, a inizio Novecento la metà degli abitanti erano ebrei e lo yiddish era la lingua franca del commercio. La sua Grande Sinagoga, prima devastata dai nazisti e poi demolita dai sovietici che ne fecero un campo da basket, era tra le maggiori al mondo, nonché una delle cento presenti in città; novantanove furono distrutte, rendendo molto difficile al visitatore odierno – come racconta bene Jan Brokken ne “Le anime baltiche” – comprendere l’ampiezza dell’eredità ebraica in una nazione che si trovò sotto una molteplicità di domini, più o meno dichiaratamente antisemiti, nel solo Novecento: zarista, nazista, sovietico. Il peso dell’occupazione russa e delle deportazioni staliniane, alle quali presero parte circa 130.000 persone nella sola Lituania, rende complesso il rapporto con il periodo nazista, inizialmente accolto come una liberazione e quindi caratterizzato dalla diffusa complicità dei locali, ovvero di genitori e nonni dei giovani lituani di oggi. Un noto esempio controverso è quello del generale collaborazionista Jonas Noreika, ancora ufficialmente presentato come “liberatore della patria”, e a cui è dedicata una placca commemorativa nel centro della capitale; oppure Adolfas Ramanauskas, insegnante e militare complice con il dominio nazista, celebrato nel 2020 dal Governo come eroe della resistenza anti-sovietica. Lo stesso trattamento invece non ricevono le opere celebrative di epoca socialista, come dimostra la distruzione dei monumenti del Parco della Vittoria (Парк Победы) nell’estate del 2022 a Riga, nonché la rimozione della statua del poeta russo Pushkin nella stessa città, oppure quella del memoriale ai combattenti sovietici nel cimitero Antakalnis a Vilnius o la scelta, compiuta dallo Stato estone nel 2023, di rinominare vie e piazze che mostrano legami con il passato sovietico (L’Estonie “nettoie” son passé sovietique, ARTE); si tratta comunque di fatti comprensibili in seguito alla russificazione che fu imposta ai baltici e all’attuale situazione in Ucraina. Il processo storico è ancora in atto e la lingua russa declinante e osteggiata da tutti i governi baltici lo dimostra.

Si stima che, quasi interamente nel solo 1941, il 95% della popolazione ebraica lituana sia stata eliminata, causando più di 200.000 vittime, contro le 65.000 della Lettonia e le poco più di mille dell’Estonia, dove la maggior parte dei cittadini nel mirino dei nazisti, comunque una minoranza rispetto agli altri Stati baltici, era già fuggito in URSS all’inizio dell’Operazione Barbarossa. Queste cifre, pur non rendendo giustizia a chi realmente perì per mano nazista in quel periodo, permettono di comprendere due atroci realtà: la Lituania fu la nazione baltica che ospitò il maggior numero di profughi ebrei, provenienti principalmente dalla confinante Polonia, nonché quella più colpita dalla Shoah; i complici autoctoni, incaricati anche del servizio di polizia sui loro pari nei lager, furono fondamentali per permettere lo svolgimento di un olocausto di tale ampiezza, rapidità ed efficienza.

“Ganor padre e i suoi due figli raccontarono che la loro fortuna fu quella di venire accolti nel ghetto di Kaunas controllato dai nazisti. Almeno lì erano al sicuro dai lituani che sfogavano tutto l’odio accumulato versi gli ebrei (…) Una foto diventata tristemente famosa – nel cortile del garage Lietūkis – ritrae un lituano biondo sui 25 anni che in un piazzale pieno di cadaveri, con una smorfia di soddisfazione, impugna una spranga di ferro. Incitato dalla folla fracassava il cranio delle vittime, una dopo l’altra.” (Jan Brokken, I giusti, Iperborea, Milano, 2020).

Lo stesso avvenne in Lettonia, anch’essa alle prese con un’imbarazzante “rimozione storica”, come narrato dall’autrice italo-lettone Marina Jarre in “Ritorno in Lettonia” e dallo storico Andrew Ezergailis in “The Holocaust in Latvia, 1941-1944″. Tuttavia fu la Jarre stessa ad affermare, alcuni anni dopo la stesura del libro, che i lettoni stanno cercando di comprendere e accettare il loro passato di complicità con il nazismo.

L’intento di questo articolo, però, non è solo quello di soffermarsi sui crimini di guerra nazista o sui loro principali autori, per altro quasi tutti evasi in Australia e America Latina grazie alle reti di esfiltrazione naziste – ratlines –, quanto piuttosto mettere in luce il ruolo di chi, avendo il potere economico o politico per farlo, ha agito per proteggere e salvare migliaia di ebrei dal genocidio.

Dopo l’apertura degli archivi segreti del Centro di Immigrazione di Buenos Aires nel 2003, e grazie al lavoro di ricerca di Uki Goni, sono stati diffusi importanti dati relativi all’Operazione Odessa, organizzazione di ex criminali di guerra associatisi per scappare nell’Argentina compiacente di Perón transitando dal porto di Genova, con la mediazione della Chiesa Cattolica locale e delle autorità elvetiche, tra i quali spiccano i nomi di Barbie e Mengele.

Ci sono però altri nomi importanti: Calogero Marrone, Giorgio Perlasca, Raoul Wallenberg, Oskar Schindler, Jan Zwartendijk, Chiune Sugihara. Sono tutti Giusti fra le Nazioni, come stabilito dalla Corte suprema di Israele nel 1963: si tratta di cittadini non ebrei che contribuirono attivamente a salvare vite umane dal genocidio nazista, mettendo a rischio la propria incolumità.

Prima di raccontare la storia di Zwartendijk e Sugihara, quindi di due diplomatici che optarono per il bene in un momento in cui il mondo sembrava essere in preda al solo male, è opportuno aprire una riflessione sul negativo nella storia a partire da Lévinas e Arendt (riprendo le giornate dedicate a questo tema dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ciclo di convegni “Guerra e pace”, 2023).

Lévinas, ebreo nativo di Kaunas, all’epoca capitale della Lituania, si è concentrato sulla questione del male, della teodicea e dell’éthique comme philosophie première, cioè della possibilità di sostituire la preminenza dell’ontologia e della metafisica con l’etica, fondando il pensiero e l’azione dell’uomo su altre basi. Tali concezioni prendono spunto dalla tragedia dell’Olocausto, dal silenzio di Dio di fronte a questi eventi e quindi dalla necessità di rifondare l’umanità oltre l’ontologia della potenza che aveva permesso l’egolatria e l’impunità naziste, nelle quali cadde anche il suo maestro Heidegger.

Il pensiero nazista non osserva le visage de l’autre, l’ego non compie l’uscita da sé verso l’altro, per guardarlo negli occhi, per comprenderne la fatica di esistere oltre la possibilità del possesso e della sottomissione; semmai considera l’altro come estensione del potere di sé e non come essere insieme: ecco la “filosofia” che ispirò il Führer e Goebbels, impropriamente mutuata dalla tradizione occidentale da Nietzsche in poi, ovvero come volontà di potenza inarrestabile, priva di confini morali, remore religiose, imperativi categorici. Non esiste responsabilità che possa fermare l’autorealizzazione dell’oltreuomo hitleriano, per il quale i valori etici sono tutti essenzialmente falsi e la conoscenza del divino inesistente, basi invece fondamentali per arretrare di fronte all’altro, compiendo il passaggio all’éthique du reveil sostenuta da Lévinas.

Tali premesse mostrano come la Shoah sia stata possibile prima culturalmente e poi materialmente, ribadendo la primarietà della questione ideologica, fondante la possibilità concreta di orientare il mondo verso genocidi che – a posteriori – appaiono incomprensibili, mentre si svolgono risultano invece essere razionali, come lo è qualsiasi conflitto nella tradizione della guerra giusta nell’espansionismo romano (bellum iustum), nella teologia morale cristiana e in svariati altri esempi della nostra contemporaneità.

“Nel Ventesimo secolo l’atrocità dell’uomo si manifesta per la prima volta su scala planetaria. Se calcoliamo le vite umane annientate con la violenza sulla terra nel corso del Ventesimo secolo, le dimensioni himalayane della montagna di vittime ci sorprenderanno. Capire quale ampia parte dell’umanità sia costituita da assassini fa venire i brividi.” (Zigmund Skujins, Come tessere di un domino, Iperborea, Milano, 2017)

Lévinas coglie le fondamenta dell’ideologia nazista molto prima della Shoah: nel 1934 pubblica “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo”, nel quale espone l’importanza di “afferrare l’hitlerismo a un livello di profondità ineguagliata”.

L’hitlerismo è un “risveglio di sentimenti elementari”, rudimentali, primordiali, oltre qualsiasi capacità riflessiva; tali sentimenti basilari esprimono “la prima attitudine di un animo di fronte all’insieme del reale e del suo destino, predeterminano il senso della sua avventura nel mondo”.

Questo pensiero si basa sul concetto dell’irreparabile, sul non poter non essere predeterminati dal passato e rappresenta l’opposto della libertà che è liberazione in quanto superamento di tale condizione coercitiva, possibilità di riparare l’irreparabile, di emanciparsi dal danno già avvenuto oltre i rimorsi. La scelta compiuta non è più vincolante, l’uomo può sciogliere il contratto e riacquistare la nudità dei primi giorni della creazione, ovvero rescindere il rapporto con il negativo di cui è storicamente erede e riappropriarsi dell’autonomia della libera ragione che è il vero fondamento della civiltà occidentale.

“Uomo e nazismo non possono convivere. Se vince il nazismo l’uomo smetterà di esistere (…) Se invece sarà l’uomo a vincere, l’uomo libero, razionale e buono, il nazismo perirà e gli umiliati torneranno a essere uomini.” (Vasilij Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano, 2008)

Hannah Arendt, ebrea tedesca, dovette scappare dall’Europa per mettersi in salvo e visse apolide molti anni, per poi ottenere la cittadinanza statunitense e insegnare nelle università americane. Si trovò a riflettere sul destino dell’umanità dopo l’olocausto, proponendo alcune teorie politiche fondamentali: le origini del totalitarismo nel 1951, la differenza tra “male radicale” e “male banale” e la cattura di Eichmann da parte del Mossad nel 1969.

L’idea iniziale della Arendt era che il male fosse radicale, forte e profondo, caratterizzato da espansione mortifera; una sorta di super-violenza che si realizza nell’uomo totalitario, carente di un sostrato etico e genuflesso alla burocrazia della grande macchina statuale hitleriana o staliniana.

Dopo il processo ad Eichmann, la teoria sul negativo nella storia della Arendt muta e si fa spazio una nuova immagine: la banalità del male. Il testo si muove su più piani: giornalistico, storiografico, giuridico e, solo in parte, filosofico. La distanza della Arendt dalla filosofia avviene in concomitanza con l’adesione al nazismo di Heidegger e di altri intellettuali dell’epoca, nonché alla collusione tra il nichilismo, ovvero il crollo dei valori morali sostenuto dalla filosofia stessa – concentrata principalmente su questioni ontologiche – e il totalitarismo. Muove anche un attacco alla letteratura di Zweig, accusato di apoliticità, con la sua scelta di sottrarsi alla vita activa e alla dimensione comunitaria del dovere civico, vivendo la sua ebraicità come un fatto individuale, concludendo la sua vita in isolamento, in Brasile, dove si suicidò nel 1942 insieme alla giovane moglie.

Eichmann non era un uomo particolarmente malvagio né irrazionale, quanto piuttosto un semplice impiegato ossessionato dagli orari e dall’efficienza del suo operato, un uomo normale, ordinario (in realtà un “nemico della condizione umana”); il suo male non è radicale, insito nella sua anima e nelle sue intenzioni – come non lo è la sua fascinazione per il nazismo – quanto piuttosto agito con banalità, superficialità e leggerezza.

Scrive Skijins a proposito del “boia di Riga”, che era “un uomo colto e intelligente che viveva in pace e armonia coi suoi vicini ebrei e all’improvviso si è trasformato in un terribile mostro (…) il nome Satana non avvicina di più alla verità (…) Era stato un eccellente pilota, giornalista, abile progettatore di aeroplani, ufficiale dell’aviazione. E avventuriero. Ma nel senso che la sua orbita è difficilmente associabile alla spirale personificata dei macellai di professione.” (Zigmund Skujins)

Lo stesso concetto è ripreso da Grossman quando, tramite la voce di una signora confinata in un ghetto, dice “Sotto la mia finestra la moglie del portinaio commentava: “grazie a Dio gli ebrei hanno i giorni contati’” (…) Molte persone mi hanno stupito. E non erano ignoranti, gente incattivita e rozza. Un vecchio insegnante, per esempio (…) mi hanno riferito che a una riunione alla Kommandantur ha sostenuto che adesso l’aria è più pulita: ’”non puzza più d’aglio”.” (Vasilij Grossman)

Il male non è una forza oscura che abita i demoni incarnati in esseri umani, si tratta piuttosto di una forza piccola che può impossessarsi di chiunque, soprattutto di chi non guarda alla realtà nella sua totalità e complessità, ma desidera essere accettato dalla società di riferimento, nonché efficiente nello svolgimento delle sue mansioni: nel caso di Eichmann deportare gli ebrei nei campi di sterminio.

Proprio questo fu il punto di difesa da lui utilizzato: aver obbedito agli ordini, aver svolto il proprio dovere agendo per Ragion di Stato; fondamentalmente aver adempiuto correttamente a quanto richiesta dalla società della tecnica, come fece Paul Tibbets in occasione dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima.

“We had feelings, but we had to put them in the background. We knew it was going to kill people right and left. But my one driving interest was to do the best job I could so that we could end the killing as quickly as possible.” (Paul Tibbets, The Columbus Dispatch, 04/11/2007)

La Arendt successivamente si sofferma sulla burocratizzazione dell’esistenza e sull’incapacità di pensare (thoughtlessness) dell’imputato, siccome “pensare significa sempre pensare dal punto di vista altrui”: Eichmann non riesce a interpretare la realtà nella sua concretezza.

Eichmann rappresenta quindi la pervasività del partito per l’uomo-massa nei totalitarismi del Novecento: non conta alcun principio etico o di giustizia, ciò che è fondamentale è l’interesse del partito, lo spirito del partito, la fiducia del partito.

“Non furono decine di migliaia né di milioni, bensì moltitudini sterminate i testimoni rassegnati e docili di quella strage di innocenti. Non solo: quando era loro ordinato, quegli stessi testimoni votavano a favore dello sterminio (…) Tanta succube obbedienza pareva inimmaginabile. Certo, qualcuno si oppose (…) tuttavia la remissività della massa resta un fatto inconfutabile.” (Vasilij Grossman)

I Giusti invece sono stati in grado di sfruttare la burocrazia per disobbedire, pur tra le maglie strette della morsa nazista. Vi sono esempi italiani conosciuti, come quello di Perlasca, figura controversa in quanto ex fascista che si oppose al genocidio ebraico, nonché i due consoli in Lituania dei quali parla Jan Brokken nel suo testo “I giusti” o le esperienze di semplici cittadini e cittadine raccontate da Zigmund Skujins in “Come tessere di un domino”.

“Non mi dica che la responsabilità e di chi mi costringe, che io sono uno schiavo e non ho colpe perché non sono libero. Io sono libero! (…) perché posso dire “no”! E nessuno può impedirmelo se trovo la forza di non aver paura di morire. Io dirò “no”!” (Vasilij Grossman).

Skujins, nel suo viaggio letterario nel travagliato passato lettone, dove appaiono baroni e paesani, traditi e traditori, non dimentica il ruolo degli ebrei, la tragedia del nazismo e la mancanza di reali alternative offerta dall’Unione Sovietica; tuttavia lo fa con un piglio letterario che riesce a smorzare la crudezza dei fatti, avvicinandosi al realismo magico latinoamericano.

Forse la Lettonia ne ha estremamente bisogno, come necessita ripercorrere i fasti della nobiltà e della belle époque manifestatesi in epoche di pace precedenti il secolo breve: l’autore coglie un sentire collettivo e crea uno storia che si situa tra realtà e immaginazione, come il Paese rappresentato, che si trova a cavallo tra Europa e Russia.

Uno degli aspetti fondamentali trattato nel romanzo è quello della minoranza di origine tedesca negli Stati Baltici: la maggior parte di loro ha accolto con slancio (reale o simulato? Onesto o interessato? Furono sinceramente dei ventrauesmann?) la chiamata alle armi, concreta e metaforica, del Führer. Le motivazioni, fondamentalmente le stesse che spinsero molti lettoni senza origine straniere al collaborazionismo, sono ben enucleate in queste righe:

“I tedeschi andarono via (dalla Lettonia verso la Germania) per non finire sotto le grinfie dei russi (…) Per settecento anni essere tedesco da queste parti ha significato essere un padrone. Perdere i privilegi non è gradevole. Forse per questo legano le loro speranze a Hitler”. (Zigmund Skujins)

Lo stesso sostiene Brokken quando scrive “Aveva sperato che Hitler annettesse sia la Polonia sia i Paesi Baltici; lo avevano sperato tutti i lituani tedeschi, per salvaguardare i loro interessi.” (Jan Brokken)

L’occupazione tedesca fu vista come una salvezza anche da molti locali, profondamente segnati dalle deportazioni in Siberia del 14 giugno 1941, quindi desiderosi di voltare pagina, dandosi la possibilità di creare una Nazione libera e indipendente sulle ceneri dell’occupazione sovietica.

Tuttavia l’idillio nazista durò molto poco in quanto:

“I comunisti erano fuggiti o incarcerati, ma gli ebrei giravano impuniti, compravano i prodotti migliori ed escogitavano nuove cospirazioni. Perché al mondo governi l’ordine bisogna estirpare la radice del male…” (Zigmund Skujins).

Il tono onirico e immaginifico di Skujins desidera fare i conti con il male che ha attraversato la Lettonia nel Novecento, senza dimenticare il ruolo di chi si oppose sempre al trionfo dell’irrazionalità.

Il linguaggio giornalistico e la precisione delle fonti di Brokken sono volutamente assenti: il racconto dell’autore di Riga dà voce ai giusti non noti, mentre l’altro testo rivolge i propri studi a chi utilizzò la propria influenza per fare il bene.

Brokken ripercorre la storia familiare di Zwartendijk, console ad interim a Kaunas, al tempo capitale della Lituania. Zwartendijk, dopo aver passato anni tra una città e l’altra approda finalmente alla direzione della Philips lituana.

Qui, nel convulso periodo che comprende l’occupazione sovietica e quella nazista, riceve l’offerta di ricoprire la carica di console del Regno dei Paesi Bassi in Lituania: totalmente a digiuno di questioni diplomatiche accetta l’incarico.

Zwartendijk però non era solo, ma aiutato dall’esperto De Decker, ambasciatore dei Paesi Bassi a Riga. Fu lui a dichiarare, su richiesta del diplomatico lituano, che per entrare a Suriname, Curaçao e negli altri territori olandesi americani non era necessario un visto d’ingresso.

Da quel momento il consolato di Kaunas cominciò a rilasciare grandi quantità di documenti di viaggio, senza mai specificare in modo chiaro alle autorità che si trattava di profughi ebrei, quasi sempre di nazionalità polacca.

“Le consulat des Pays-Bas à Kaunas déclare par la présente que pour l’admission d’étrangers au Surinam, au Curaçao et autres possessions néerlandaises en Amérique un visa d’entrée n’est pas requis.”

Per completare l’itinerario, che si svolgeva in treno fino all’estremità orientale della Russia, occorreva un visto di transito per il Giappone: fu così che entrò in scena Sugihara, primo console giapponese nei Paesi Baltici, il quale dichiarò fin da subito che, siccome per la destinazione finale non occorreva un visto, non avrebbe avuto alcuno problema a rilasciar un timbro di passaggio per il Giappone.

Da qui inizia la storia del salvataggio di migliaia di esseri umani, motivo per cui Zwartedijk nel dopoguerra fu soprannominato da alcuni profughi stanziatesi a Los Angeles “The Angel of Curaçao”. Lui e Sugihara, insieme, rilasciarono 2139 documenti utili per l’espatrio (anche se pare siano molti di più, ad esempio nel film Persona non grata si parla di 6.000 “visti”, mentre la vedova Sugihara in Visas for life ne conta 10.000).

“In fin dei conti ho preso la mia decisione da essere umano. Ci ho pensato bene per una notte intera. Quello che avrei fatto non era forse corretto per un diplomatico, ma non potevo abbandonare al loro destino quelle migliaia di persone che dipendevano dal mio aiuto.” (parole di Sugihara riprese da Brokken).

Il viaggio verso Curaçao avveniva via terra attraversando l’intera Unione Sovietica con la transiberiana fino a Vladivostok, poi, da Kobe, ci si dirigeva verso la meta finale: le Antille Olandesi. Stalin divenne dichiaratamente antisemita solo dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, prima le sue posizioni erano moderate; per questa ragione Dekanozov, commissario per il Popolo della Lituania, informò il “gruppo georgiano” (Stalin, Molotov, Berija) dell’esodo dei profughi verso oriente, senza che nessuno dei tre intese fermarlo o dirottarlo verso i gulag.

Dekanozov disse anche al ministro degli esteri che tale lungo viaggio sarebbe stato fondamentale per le casse dell’Armata Rossa sempre più timorosa dell’espansionismo hitleriano: gli ebrei pagavano 400 dollari americani per il “passaggio” a Vladivostok e l’Unione Sovietica aveva bisogno di valuta straniera per finanziare le proprie spese belliche.

“Dato che i russi volevano i dollari, ci trattavano come normali turisti, non come profughi (…) Dopo tutto quello che avevamo passato in Polonia con la guerra, ci ritrovammo di colpo in vacanza. All inclusive.” (Jan Brokken).

L’Europa rappresentava la violenza e l’irrazionalità, per questa ragione, in seguito al displacement forzato, “l’emigrazione di ritorno” fu quasi nulla anche nel dopoguerra: gli ebrei che non andarono in Israele si trasferirono negli Stati Uniti, in Argentina, in Australia. Una storia a lieto fine, pur avendo un retroterra tragico, è quella del Café Sheherazade a Melbourne, un bar aperto da profughi europei sfuggiti all’olocausto dopo anni di peregrinazioni, che divenne un punto di riferimento per esuli e cosmopoliti, non solo di fede ebraica.

Dopo gli attacchi giapponesi del 1941 in Asia e a Pearl Harbor, i politici e buona parte della popolazione locale abbracciarono i valori nazisti della violenza e della xenofobia: alcuni anni dopo anche Sugihara, a causa di quanto avvenuto in Lituania, fu licenziato e costretto a sostenersi con lavori precari in Unione Sovietica per molto tempo.

Oltre a un diffuso allarmismo relativo all’immigrazione ebrea, fomentato dai giornali locali, in Giappone iniziava ad attecchire un forte nazionalismo. I vertici dell’estremo oriente consideravano Hitler un punto di riferimento e il colonialismo europeo un obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo.

Solo molti anni dopo la memoria di Sugihara, così come quella di Zwartendijk, fu riabilitata nel suo Paese natale, dove in un primo tempo fu fortemente redarguito per non avere seguito le regole durante il suo servizio in Lituania. D’altronde con decenni di distanza gli obiettivi della politica internazionale del Giappone e dell’Olanda mutarono: nascondere a tutti i costi il collaborazionismo con i nazisti e presentarsi come difensori della democrazia erano la priorità.

Fu così che il console olandese, dopo due tentativi falliti, fu nominato Giusto tra le nazioni solo post mortem nel 1997, mentre Sugihara fu l’unico giapponese ad essere ufficialmente riconosciuto tra i “righteous among the nations” dallo Yad Vashem nel 1985.

In un’intervista del 1968 spiegò con queste semplici parole la sua scelta:

“Se avessi obbedito al mio governo, avrei disobbedito a Dio.”

 

[Immagine di copertina: Toni Demuro, tutt’art. Immagine 1: Toni Demuro, Orion Magazine. Immagine 2: Zwartendijk  and Sugihara visa 1940 (Wikipedia). Immagine 3: Toni Demuro, urbancycling.it]                                                                                                           

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