Da uno sfogo di Henry Miller, l’assurda battaglia di Tropico del Cancro per non finire soffocato dall’ignoranza.
“Sento di avere il diritto di parlare della mia difficoltà di comunicare con il mondo dato che i miei libri sono stati messi al bando negli unici paesi dove potrei essere letto nella mia lingua madre. Ho abbastanza fiducia in me stesso, tuttavia, per sapere che prima o poi riuscirò a farmi sentire, se non capire. Tutto ciò che scrivo è carico di quella dinamite che un giorno farà saltare in aria le barriere intorno a me. Se non ci riuscirò sarà perché non ho messo abbastanza dinamite nelle mie parole. E perciò, finché avrò la forza e il gusto di farlo, caricherò le mie parole di dinamite. So benissimo che le creature timide e striscianti che sono le mie vere nemiche non mi affronteranno mai faccia a faccia. Conosco quella gente!” Questo sfogo che pare una dichiarazione di guerra è un estratto di The Cosmological Eye, edito nel 1939, in cui Henry Miller allude a Tropico del Cancro (Tropic of Cancer).
Sono passati solo cinque anni da quando, pubblicata da una piccola casa editrice francese, l’opera diventa immediatamente illegale negli Stati Uniti e nei i paesi di lingua anglosassone; anche in Italia, ma è troppo scontato specificarlo. Pare lo sequestrino persino in Israele e Turchia.
Tropico del Cancro è scritto fra il 1931 e il 1934. Verrà liberato solo nel 1961, dopo aver affrontato il processo per “oscenità”. Ci sarebbero da scrivere enciclopedie su queste farse. In Italia l’anno dopo Feltrinelli dovette farlo stampare in Francia, con il marchio di una casa editrice svizzera, per poterci fare un’edizione in italiano a patto che fosse dichiarata “vietata la vendita nel territorio italiano”. Pare che in realtà fosse stampato e spacciato a Varese. In quell’anno di grazia, l’autore ha settanta anni, per intenderci.
Definire Tropico del Cancro un romanzo pornografico è, oltre che un insulto alla letteratura, estremamente riduttivo.
In realtà è un fiume che straborda con tutto quello che c’è nelle strade, è l’implosione di un uomo arrapato di vita, che nella Parigi di quegli anni trova il riflesso più vero della sua anima.
Certo, le donne sono contemplate. Sin dall’inizio si capisce, non è esattamente un libro da far girare in un convento.
Ma la vita può essere stupenda proprio perché zeppa di cose belle. Ognuno sceglie quelle a sé più istintivamente congeniali. Qualcuno arriva a innamorarsi della morte, come per una paradossale attrazione fra gli opposti.
Ma a erompere in ogni frase che spacca la pagine di carta spessa (una copia di Tropico del Cancro deve essere su carta spessa e ingiallita) è il canto stonato della vitalità che impazzisce girando fra i suoi riflessi, è la gioia di cantare scrivendo, di esserci e di pensare e parlare, di imprimere parole al tritolo perché lo impone il battito nelle vene ancora prima di una futura censura . Sia che si scriva di un pittore o di un orgasmo, di un pranzo scroccato o di una chiesa sconosciuta – fra le tante cattedrali di Parigi – di libri altrui e sogni propri, di discorsi come palazzi reali costruiti sull’acqua solo per il gusto di farli – assieme a gente che sembra francamente fuori di testa – è il ritmo che ti prende, che ti devasta, che ti permette di essere lì, alla mostra in un giorno di pioggia o in quel bordello di specchi appannati costruito con scale troppo lunghe, o insieme a Carl e Van Norden, tornando verso Montparnasse dopo una notte passata a correggere bozze per un quotidiano, parlando, parlando, parlando, tentando di concepire un “mondo senza speranza, ma non disperato” .
Passi indenne fra notti di puttane che urlano il tuo nome, zeppe di profumi e trucchi indelebili e di strani incontri fra immigrati, in cerca di pasti fra le strade sfuocate e sponde brulle della Senna, alberi spogli, vicoli perduti, piazze abbandonate, cortili soli, barboni e barbone addormentati accatastati su se stessi, carrette di frutta, stanze ghiacciate, principesse russe con lo scolo e la pancia gonfia, e anche se hai fame la vita rimane affascinante e ogni tanto arriva anche un’erezione a stomaco vuoto, con un po’ di fortuna, e Parigi prosegue a sognare di sé, e il fatto più divertente è che più le capitali vogliono mostrare il loro maestoso splendore erigendo cattedrali e monumenti, palazzi enormi e grandi statue, più la parte di feccia che vorrebbe nascondere chi le governa rifluisce con i suoi odori e le sue grida rozze e smozzicate, con i corpi e le catapecchie a prendersi le strade.
Non male.
Perché “Là tu non pensi ad altro che a diventare presidente degli Stati Uniti, prima o poi. In potenza in ognuno c’è la stoffa presidenziale. Ma qui è diverso. Qui ognuno potenzialmente è zero. Se tu diventi qualcosa, qualcuno, è per caso, per miracolo ….. Ma proprio perché le probabilità sono tutte contro di te, proprio perché c’è così poca speranza, la vita è dolce qua. Niente ieri, niente domani.”
Perché “Un uomo che riesca a percorrere di notte il faubourg Montmatre senza il fiato grosso e il sudore, senza sulle labbra una preghiera o una bestemmia, quell’uomo non ha le palle, e se ce l’ha, allora bisognerebbe castrarlo”.
Perché il canto prosegue con poche pause e la vita non ha tempo come l’uomo. Ho preso in mano il libro con la scusa di dargli una ripassata per scrivere questo pezzo. L’ho riletto. Ci sono libri, come donne, che se rivedi anche solo per un secondo e per una scusa sai come finirà.
Le barriere di cui parlava Henry Miller erano muri muffi destinati a crollare da soli seppur con lentezza. Anacronistici, quanto meno. D’altra parte dalle nostre parti si censurava De André nel 1967, reo di aver scritto, mentre la gente si sparava per le strade o si preparava a farlo che “ spesso gli sbirri e i carabinieri al loro dovere vengono meno ma non quando sono in alta uniforme e l’accompagnarono al primo treno”. Menomale che un genio può sempre mettere una toppa.
Scrivo ottant’anni dopo la prima pubblicazione di Tropico del Cancro e cinquantatré anni dopo il processo intentato. L’anno scorso il romanzo più venduto o quasi, che ho visto impugnare su treni e uffici, panchine e sale d’aspetto da gente che aveva l’aria di non prendere un libro in mano da prima di Gutenberg, mi risulta essere la storia di due che si prendono a vergate e quando non lo fanno si scrivono e-mail per dirsi quanta voglia abbiano di prendersi a vergate e ripassare il regolamento.
Viene da ridere un po’. Anche a te, Henry?