Vi racconto di un fumetto e di una band, e di come si sono incontrati.
Pet Sounds è il disco con cui nel 1966 i Beach Boys buttano dalla finestra la formula (surf + ragazze + estate) che sino ad allora li aveva ricoperti d’oro per diventare il primo grande esperimento di avanguardia pop. Le melodie festose di I Get Around e Catch a Wave lasciano il posto ad un concept album fatto di brani complessi e introspettivi, modellati secondo i dettami del wall of sound predicato da Phil Spector: la endless summer dei primi anni Sessanta si consuma e svanisce in poco più di mezz’ora di musica, un’elegia d’autunno all’adolescenza e all’innocenza perduta.
Brian Wilson, bassista e cervello del gruppo, è produttore e autore (insieme al paroliere Tony Asher) del progetto, scritto mentre il resto del band era in tournée senza di lui (e nel gruppo non mancano le voci critiche nei confronti della svolta “adulta” di Brian). All’uscita di Pet Sounds non ha ancora compiuto 24 anni e subito dopo si perderà nella follia e nella droga: al punto che Smile, l’album da lui preannunciato come “a teenage symphony to God”, verrà abortito prima di essere pubblicato (per poi riapparire decenni più tardi, ma questa è un’altra storia).
Il disco è talmente innovativo e unitario da spiazzare il pubblico, abituato alle (splendide) canzoncine disimpegnate dei primi Beach Boys: troppo avanti rispetto ai tempi per ottenere un vero successo commerciale.
Per la critica invece non ci sono dubbi: è uno dei più grandi dischi del Novecento, forse il più grande. George Martin, «il quinto Beatle», disse che “senza Pet Sounds, Sgt. Pepper’s non sarebbe esistito… era un tentativo di eguagliare Pet Sounds”. Eppure, non è rimasto impresso nella memoria collettiva quanto i primi successi dei Beach Boys: un capolavoro assoluto, ma oscurato dall’opera che gli aveva preparato la strada.
Già prima del ’66 alcuni pezzi della band californiana rivelavano la vena di malinconia che scorreva sotto le note spensierate: basta ascoltare The Surfer Moon o The Lonely Sea per rendersene conto. Anche la complessità dei brani, album dopo album, era aumentata, andando ben oltre i consueti confini del pop da classifica. Pet Sounds è il passo successivo, l’azzardo che cancella le distanze tra musica colta e popolare, tra orecchiabilità e sperimentazione.
Nel 1990, in America, ci fu una breve e improvvisa fiammata di interesse per Pet Sounds, che già era uscito da quasi un quarto di secolo. Come mai? La risposta è Doonesbury.

Garry Trudeau è stato, nel 1975, il primo fumettista a vincere il premio Pulitzer. Cinque anni prima aveva dato il via alla saga di Doonesbury, che da allora non si è mai interrotta: oggi è pubblicato da quasi 1400 giornali in tutto il mondo (in Italia da «Linus» e da «Il Post»). Il formato è quello della strip quotidiana: un’arma affilata con cui Trudeau scava nel profondo della società americana raccontando ciò che accade negli Stati Uniti e nel mondo.
È stato il primo fumetto ad affrontare a viso aperto questioni “delicate” (il femminismo, il Vietnam, l’omosessualità, tutti gli scandali di tutti i presidenti d’America da Nixon in poi), subendo innumerevoli censure e tenendosi sempre sulla stretta attualità. La rapidità di realizzazione di una strip infatti permette a Trudeau di seguire gli eventi giorno dopo giorno, come una sorta di diretta perpetua: il mondo osservato dagli abitanti di una enclave di fantasia che abita la nostra stessa realtà.
Lo stratagemma che fa funzionare Doonesbury è tanto geniale quanto semplice: Trudeau ci racconta la vita di normalissimi cittadini americani che tra una vicenda personale e l’altra parlano, si confrontano, riportano su carta le opinioni e i conflitti dell’autore con una capacità di sintesi straordinaria per un fumetto da quattro vignette al giorno (Gerald Ford disse che “per tenersi informati su quel che succede a Washington ci sono i giornali, la tivù, e Doonesbury. E non necessariamente in quest’ordine”). I personaggi discutono di politica, litigano, cambiano idea, si evolvono. E invecchiano. Cosa che di solito nei fumetti non succede (l’unico altro caso a me noto è Valentina di Guido Crepax).
Questioni delicate, dicevo: è il 1989 quando Trudeau ripresenta nella striscia il personaggio di Andy Lippincott, che già aveva dato scandalo appena apparso in quanto gay dichiarato (era il ‘76). Andy è tornato, e c’è una pessima notizia: è malato di Aids.
Forse qualcuno ricorda quali livelli di paranoia avessimo raggiunto, nel 1989, sul tema dell’Aids. Trudeau, come sempre senza paura, prende l’argomento di petto e racconta l’agonia di Andy Lippincott: che lotta contra la malattia, e se fosse un normale personaggio di un normale fumetto potrebbe sopravvivere grazie a qualche rimedio di fantasia: invece è legato al proprio presente. Il tempo dei personaggi di Trudeau è il nostro tempo, e nel 1990 l’Aids non lasciava scampo né alle persone reali né a quelle fittizie che abitano il mondo di Doonesbury.
Ecco, qui succede che un fumetto e una band si incontrano. L’unico conforto di Andy sul finire della sua esistenza è l’ascolto di Pet Sounds. «L’hanno fatto! Hanno rieditato Pet Sounds in cd! Ho vissuto abbastanza a lungo per poter sentire Pet Sounds in cd!» esclama gioioso nel suo letto d’ospedale (oggi una frase simile farebbe sorridere, ma nel 1990 i cd erano l’ultima frontiera tecnologica. È anche per questo che fa bene leggere Doonesbury: le strisce nuove per interpretare il presente, quelle vecchie per capire meglio il passato).
Come spesso accade leggendo questa striscia, si ha la sensazione che l’autore stia usando un suo personaggio come portavoce per farci conoscere il suo pensiero. È come se giocasse con il lettore dicendogli: se io fossi moribondo, l’ultima cosa che vorrei ascoltare è questo disco. La domanda implicita al pubblico è: e voi, invece? Uno splendido omaggio inserito nella trama, quello ai Beach Boys da parte di Trudeau, che caratterizza in modo indelebile uno dei suoi personaggi più interessanti e allo stesso tempo ci fa partecipi delle sue passioni.

L’autore va fino in fondo e nel maggio del 1990 Andy Lippincott muore. Nella mano stringe un taccuino su cui sono scritte le sue ultime parole: Brian Wilson is God.

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