In quanto a sfide mortali, vite sull’orlo di un precipizio, tragedie strappalacrime e dinamiche traumatiche sappiamo che i miti non ci deluderanno mai. Tutte le più belle storie hanno patito le pene dell’inferno per meritarsi la gloria di cui godono. Possiamo affermare dunque che il rapporto tra tragedia e fama è direttamente proporzionale.
Lucio Apuleio (125 d.C. – 170 d.C. circa) nelle sue Metamorfosi ci racconta le ridicole avventure di un certo Lucio – nomen omen – che sperimenta con la magia e viene accidentalmente trasformato in un Asino (titolo originale del libro: L’asino d’oro) e sarà diretto testimone di tutte le storie racchiuse all’interno del tomo. Tre libri su undici totali raccontano la storia di Amore e Psiche. Sono quindi due protagonisti fisicamente ingombranti nell’opera che, giustamente, sono arrivati a far eco ai giorni nostri. Nuotano infatti nella coscienza di tutti noi comuni mortali grazie, soprattutto, ad un semidio che l’ha voluti imprimere eternamente in marmo: Antonio Canova. Ma per fare un po’ la tragica anche io parlerò del Canova solo alla fine di questo racconto.
Il termine “psicologia” deriva da psiche: il respiro, l’anima, lo spirito. Psicologia allora è lo studio della mente come collettività delle abilità del cervello. Anche se Apuleio usa due termini: simplex et curiosa, così viene descritta la giovane. Chi era dunque costei?
Psiche è il nome di una giovane greca cui accadde un’avventura bellissima e terribile. Giovane di straordinaria bellezza, stava sullo stomaco ad Afrodite. Nessun mortale portava più doni al tempio della dea, tutti alla bellissima Psiche. Afrodite decise allora di vendicarsi e punirla facendola innamorare dell’uomo più vile della terra. L’Oracolo di Delphi così disse ai genitori della ragazza:
«Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re, su un’alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato, ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l’aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, tremano gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d’Averno e i regni bui.» (IV-33)
Afrodite dunque manda il figlio Eros a colpire d’amore Psiche per l’uomo più vile che esista. Ma appena la vede Eros se ne innamora, e dalla sorpresa il dardo gli cade di mano ferendolo e provocandone l’innamoramento immediato. I genitori di Psiche nel mentre la conducono nel luogo in cui l’oracolo aveva predetto che si sarebbe compiuto il suo destino. Un macabro corteo parte verso l’alta cima brulla del monte che avrebbe visto la figlia rapita da un mostro alato. Sull’orlo del precipizio Psiche, d’un tratto, viene sollevata dal vento Zefiro e trasportata in uno strano fastoso palazzo dove, nel buio più completo, giacerà col suo sposo senza mai riuscire a vederlo. Alla richiesta di accendere un lume a Psiche viene comandato di non farne mai uso: dice lo sposo di essere così brutto da non voler esser mai visto dalla moglie. Psiche obbedisce al marito ma non può credere che colui che la ama così intensamente e che colui che può darle quel piacere così fisico e quela gioia dell’animo in realtà possa essere l’uomo più vile della terra.
Ottenuto il permesso del marito di ospitarle per un giorno, Psiche racconta alle gelose sorelle la stranezza del suo matrimonio. Alle loro domande sulla bruttezza del fortunato Psiche non sa cosa rispondere, infatti non ha mai visto il suo sposo: il loro tempo insieme si consuma solo sotto le coperte, nel buio più totale. Le sorelle di Psiche erano anch’esse sposate ma con mariti molto più vecchi, e per di più sempre lontani a combatter guerre. Erano perciò invidiose della sorte in cui era caduta la più giovane. Va bene, il marito era ambiguo, ma perlomeno Psiche viveva in uno splendido palazzo e raccontava di straordinarie e folli notti d’amore! Le sorelle allora la convincono che ogni donna ha il diritto di conoscere il proprio uomo! A nulla valgono i racconti di come lui la faccia sentire amata, di come i suoi abbracci la rapiscano, di come i loro momenti di intimità siano inenarrabilmente divini. Le sorelle rimangono dell’opinione che non sia accettabile una condizione del genere.
Con questa curiosità che non le dà pace, Psiche giace con il marito ancora una volta e si sforza, dopo l’amplesso, di rimanere sveglia. Il marito dorme pacatamente vicino a lei; Psiche si alza, armata di un lume ad olio e un coltello; si avvicina al talamo nuziale e guarda per la prima volta il consorte. Qui vale la pena citare la descrizione del dio fatta proprio da Apuleio:
«Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Eros in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Afrodite non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio.» (V libro)
La sorpresa la fa sobbalzare e una goccia di olio caldo cade sul corpo di Eros, che si sveglia: con l’espressione corrucciata, senza nessuna parola, si leva in volo e scompare lasciando la moglie disperata. Era lui quindi il terribile mostro alato che tutti gli dei temono. Aveva tutto, ora non ha più niente.
Aspetta invano il suo ritorno, medita il suicido, vaga per le lande alla ricerca dell’amore perduto fino ad arrivare al tempio di Afrodite per implorarle perdono. Afrodite si rivela ma è ancora in ira con lei per essersi unita al figlio. Vuole che soffra. Per cui, come ormai siamo abituati, iniziano una serie di prove assurde da superare per poi forse aver la salvezza.
Prima prova: dovrà mettere in ordine una grande quantità di granaglie entro la sera. Disperata, sin dal primo momento Psiche medita la fuga, il suicidio, e stramazzata dai pensieri si addormenta al suolo. Al suo risveglio mille formichine hannofatto per lei il suo lavoro, raggruppando in mucchietti eguali tutti i granellini. Afrodite torna e va su tutte le furie. Ordina la seconda prova: Psiche dovrà andare a prendere un po’ di lana d’oro da delle speciali pecore. Pensando sia una prova più facile, Psiche parte e fa per avvicinarsi al gregge, ma una canna verde la ferma avvisandola che è di pecore assassine che si tratta: dovrà aspettare dopo il loro pasto, quando andranno a riposare, e solo allora si potrà avvicinare ai rovi dove sono rimasti impigliati grandi ciuffi di lana d’oro. Psiche ottempera anche alla sua seconda fatica. Le furie della dea crescono. Ordina una terza impervia prova che Psiche porterà a termine grazie all’aiuto di un’aquila. Ma l’ultima prova dimostra l’odio che Afrodite nutre per la nuora. Le ordina un po’ di crema di bellezza di Proserpina, la moglie di Ade, la sposa degli inferi. L’unico modo di raggiungerla è quindi morire. Disperata, Psiche medita di buttarsi giù da una torre, quando la stessa torre ad un certo punto le parla e le indica un preciso e sicuro punto di accesso all’Ade. Da lì potrà soddisfare i desideri di Afrodite senza porre termine alla propria esistenza, recuperare il contenitore della crema di bellezza di Proserpina, e tornare in superficie. Psiche così fa, ma nella strada di ritorno la simplex et curiosa apre il vasetto pensando di mettersi un po’ di cremina, giusto un velo, per apparir bella al suo sposo. Dal contenitore uscirà invece una terribile nuvola, quella del sonno eterno, che l’addormenterà.
Eros riesce a liberarsi dalla prigione d’oro in cui lo aveva chiuso la madre, ed appare facendo rientrare la nuvola nel contenitore e liberando la povera sposa con un bacio. C’era lui in realtà dietro le formiche, la canna, l’aquila e la torre. Questa volta prende Psiche, la porta fin sull’Olimpo e implora Zeus affinché la questione tra la sposa e la madre giunga al termine. Psiche viene mutata ad immortale e legittimata come sposa di Eros. La loro figlia si chiamerà Edonè, ovvero Voluttà.
Gli artisti si sono concentrati soprattutto in due grandi momenti del racconto: Psiche che sveglia maldestramente Eros con il lume e il bacio finale che risveglia la bella.
Alla Galleria Borghese di Roma è custodita l’opera di Jacopo Zucchi, fiorentino, che nel 1589 ha l’incarico da casa Medici di compiere una pittura per le nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Zucchi, famoso per le sue capacità decorative e l’estro manierista, fa risplendere l’opera di stoffe pregiate, perle e fiori, e in che posizioni! Il vaso che copre le nudità di Eros è uno dei dettagli più fotografati della storia dell’arte, da svenimento. È entusiasmante poi seguire la goccia d’olio nel suo tragitto fino alla spalla di Eros e vederne l’ustione! La posa di Psiche poi, non ce la racconta giusta. Ad una prima occhiata sembra trionfante, in posa vittoriosa: ricorda Giuditta che sconfigge Oloferne, e il coltello in mano rafforza questa ipotesi. Conoscendo la storia, invece, nasconde insicurezza e paura, e il suo viso con le gote rosse ne è la prova.
Agli Uffizi di Firenze è custodita l’opera di Giuseppe Maria Crespi (Bologna 1665 – 1747), in pieno tenebrismo settecentesco. Il momento scelto è lo stesso dello Zucchi ma con ovviamente molti meno colori in tavolozza. Tutta la luce che c’è in questo quadro è data dalla sola piccola fiamma della lampada, che atmosfera. Crespi è Bolognese ma la sua pittura ha influenze nordiche. Insieme ai veneziani ha imparato la tecnica del colore in assenza di disegno preparatorio ed è a Vienna, alla corte di Eugenio di Savoia, che ci dona la più grande produzione di pitture. Artista versatile nella scelta dei soggetti, varia da pitture sacre alla ritrattistica ai paesaggi naturalistici. Finirà la sua vita a Roma, passando per Firenze alla corte degli ultimi Medici, e riceverà la nomina di cavaliere da Papa Benedetto XIV. Chissà se è la beffa della vita o la natura della stessa quando scegli di dipingere le tenebre, fatto sta che Crespi perderà la vista e non potrà quindi produrre nei suoi ultimi anni nella capitale. Peccato, abbiamo proprio bisogno delle tenebre, è l’unico modo per rendersi conto degli abbagli.
François Gérard (Roma 1770 – Parigi 1837), allievo del più noto Jaques-Louis David, ci propone questa testimonianza in pieno gusto neoclassico, anche se con lui arriviamo a fine secolo (1789) e la corrente artistica ha preso una deriva più sensuale. La giovane Psiche riceve alquanto sorpresa il primo bacio da Eros, che rimane invisibile ai suoi occhi. L’antico mito, oltre che ad essere una storia d’amore, è anche un’allegoria della metafisica, e Gérard ne era un grande stimatore. L’espressione di Psiche sembra rilassata ma al contempo distante; i gesti di Eros, dio dell’amore, rimangono misurati, del tutto privi di passione e impegno. Le linee del corpo però riflettono l’accurata attenzione rivolta all’anatomia dal pittore, così come è magnifico accorgersi che le gambe di lei sono del tutto coperte ma da stoffe trasparenti, che squisito gioco tecnico. E quella farfalla? È l’anima di Psiche che spicca il volo col bacio di Amore.
Terminiamo con l’opera scultorea per eccellenza di Antonio Canova, custodita al Louvre. È senz’altro un cardine della storia dell’arte. In pienissimo stile neoclassico Canova fa risaltare la perfezione delle forme e il richiamo alle antiche statue greco-romane. I movimenti dei due protagonisti formano una X molto leggera, immaginando di tracciare una linea che parte dall’ala destra del dio fino al suo piede sinistro, e poi un’altra invece che ha la sua origine nell’altra ala di Eros e si conclude nel corpo di Psiche. È un gioco perfetto di studi prospettici, il nostro sguardo cade al centro della X immaginaria, punto nel quale altre due forme geometriche, due cerchi prodotti dalle braccia di Psiche, si intrecciano, e ci costringono a contemplare quel bacio. È un’opera che si fa guardare a lungo per la dolcezza e raffinatezza dei gesti, e anche se ideata per una visione frontale custodisce al di là dei personaggi gli oggetti dei due, la faretra, il vaso del sonno eterno. Un viaggio a tuttotondo e in tutte le geometrie. L’opera, si sa, fece storia sin dal suo esordio, Canova stesso ne fece subito una copia, conservata all’Hermitage di San Pietroburgo. Ispirò artisti di tutti i tipi, dallo scultore Rodin allo scrittore Gustave Flaubert, che scrisse:
«Ho baciato sotto l’ascella la donna in deliquio che tende verso Amore le sue slanciate braccia di marmo. E che piedino! Che profilo! Ch’io possa esser perdonato, da tanto tempo questo è stato il mio solo bacio sensuale, ed è stato qualcosa in più: ho baciato la bellezza stessa, ed era al genio che sacrificavo il mio ardente entusiasmo.»
In copertina: Amore e Psiche, Antoon Van Dyck (1639-40) per Filippo II di Spagna.