Definire la street art non è impresa facile. La definizione richiede dei limiti, dei confini, ed i limiti e i confini sono proprio il terreno con il quale gli street artist giocano spezzando le cornici nelle quali l’arte è costretta. Il loro terreno è infatti lo spazio pubblico della città. Il luogo in questo modo, una volta praticato, diviene punto d’incontro, cessa di essere luogo per divenire “spazio”. Tecniche come l’utilizzo di sticker art, stencil, proiezioni video e sculture in luoghi pubblici hanno come comune intento la riappropriazione degli spazi. La dimensione artistica si intreccia così inevitabilmente con quella sociale alla ricerca di un dialogo e di uno spazio di riflessione. La provocazione e la ricerca dell’impatto sono l’anima dell’arte di strada.
Ne sa qualcosa Clet Abraham, pittore e scultore bretone, fiorentino d’adozione, genio della street art per alcuni, imbrattatore per altri o, come si è descritto lui ironicamente: “ANACLETO ABRAHAMI (1524-1594) detto Il Bretone data la sua sfrenata passione per l’ostrica. Pittore e scultore bizantino, si trasferì in Firenze dove si formò presso la bottega di Angelo Del Bello. Fu l’appassionato amante di Laura, con la quale batté il ferro finché fu caldo, alla barba del ben noto artista Bartolomeo Ammannaggia”. L’epigrafe comparì sotto il suo autoritratto, nella collezione Loeser di Palazzo Vecchio, nello spazio lasciato vuoto dal ritratto di Laura Battiferri prestato al Palazzo Strozzi per la mostra Agnolo Bronzino, poeta e pittore alla corte dei Medici.

Regala installazioni urbane ormai da anni giocando con l’alienazione della segnaletica stradale attraverso immagini ironiche e dissacranti in un continuo incontro-scontro con la realtà urbana, fiorentina ma non solo. Le sue incursioni notturne di sticker art provocano sorrisi, critiche e riflessioni anche a Torino, Bologna, Parigi, Berlino e Londra. Ma la sua arte urbana non si esaurisce negli sticker rimovibili. Chi vive a Firenze avrà sicuramente avuto modo di notare la recente presenza di un nasone sulla torre di San Niccolò, o di una statua di “Uomo comune” su Ponte alle Grazie, oltre al suo studio con sede a San Niccolò (dell’Olmo n°8), in cui è possibile immergersi in installazioni come “Love Forever” e in una bufera di schizzi e dipinti.

Vi riportiamo il nostro incontro con lui, durante il quale ci siamo divertiti a disegnare nastri colorati tra arte e società.

In un’intervista hai affermato “l’unico spazio che mi potevo prendere era la strada”, la frase decontestualizzata forse non rende, o forse rende di più. Io la leggo un po’ come “l’unico modo che ho di esprimermi è attraverso la condivisione”. Che valore ha per te la strada?

Il valore massimo, il più affascinante, il più completo, il più vero, non c’è gusto maggiore che quello di fare qualcosa per strada, almeno per ora.

La mia percezione del tuo lavoro mi rimanda inevitabilmente, come hai spiegato anche tu in altre occasioni, alla dinamica del potere. Ma esistono varie accezioni di potere. C’è un potere inteso come dominio ma c’è anche un potere inteso come influenzamento, come percezione della propria capacità di apportare cambiamenti entro il contesto in cui si è immersi. Quanto credi che il tuo lavoro possa risvegliare una sorta di responsabilità sociale, un potere di questo secondo tipo, cioè quanto può accrescere la consapevolezza di poter riappropriarsi della propria soggettività, di potere di intervenire in senso sociale e attraverso un dialogo con le istituzioni?

Diciamo che l’obiettivo è proprio questo, poi quanto possa funzionare veramente non lo so. Ci vuole coraggio, voglio dimostrare che è possibile partecipare. Ho ascoltato ultimamente un cd di Gaber in cui canta “libertà è partecipazione”. Ma che cosa vuol dire partecipazione? È difficile da spiegare ma io lo vivo veramente: mi sento libero quando intervengo. Qualche sera fa parlavo con alcuni ragazzi sul diritto di voto, gli dicevo che io non voto perché non mi sento di parteciparein questo modo, il voto non vale nulla, non è sufficiente come partecipazione. La partecipazione è qualcos’altro, è utilizzare i propri talenti, le proprie capacità, e metterli in gioco. Il mio lavoro spero possa essere un incentivo, perché ognuno trovi la propria via di partecipazione.
Riprendendo il tema dell’autorità. Ho fatto delle riflessioni sul significato psicologico di contro-dipendenza, dipendenza, e interdipendenza in riferimento alle tue opere sui cartelli stradali. Mi sembra che tu voglia in qualche modo allontanarti sia dal concetto di dipendenza dall’autorità come forma di sottomissione acritica al dominio (e qui abbiamo l’immagine del classico cartello stradale alienante), sia dal concetto di contro-dipendenza come forma di azione contraria all’autorità (penso ad esempio ad un segnale stradale completamente modificato al punto da non riconoscerne il senso e la funzione). Mi sembra quindi che tu ti muova secondo il concetto di interdipendenza, tra il potere vigente e la soggettività individuale, in una sorta di influenza reciproca…

Non possiamo scappare alla nostra realtà, è impossibile, non la possiamo distruggere, non la possiamo annullare, la possiamo solo, forse, trasformare. L’uomo ha bisogno di limiti, di controlli, chi più chi meno. Pensa al poliziotto, lui ama i divieti, ama il limite perché lo tranquillizza, gli da una serenità, una sicurezza che altrimenti non ha. Ha paura della libertà. Nella massa umana ci sono tutte queste sfumature e dobbiamo tenerne conto, non possiamo astrarci, tocca lavorare e vivere con questo. Il mio obiettivo è di positivizzarlo. L’umorismo, l’estetica, queste sono le mie armi.

Il rischio è, secondo me, quello che la questione venga ridotta a “Clet contro le istituzioni”, che è un modo piuttosto comodo di leggere la situazione, di incasellare la questione per renderla più risolvibile, offuscando quel livello fondamentale che è la dimensione collettiva.

Questo è un problema, non so neanche io dove andrò a finire con questo. Più che contro l’istituzione io sono contro l’imposizione a priori. Neanche contro l’imposizione, ma contro l’imposizione a priori. Penso che non dobbiamo obbedire. Quindi quando un’istituzione, un potere qualsiasi ci richiede un’obbedienza cieca, io sono contrario. Voglio prima riflettere sulla valenza di questa richiesta e poi obbedire o meno, e a quel punto non è più obbedire. Se l’istituzione si pone come un’autorità assoluta allora si, sono contro, se invece si pone come un work in progress allora possiamo anche dialogare.

Nei tuoi lavori emerge spesso un lato ironico e umoristico oltre a quello provocatorio. Credi che queste armi siano apprezzate nella cultura attuale?

L’ironia, l’umorismo in generale, credo che sia una delle chiavi di collegamento, un ponte tra tutte le contraddizioni. Non è una soluzione, ma permette di superare, di collegare, di digerire, comunicare meglio e alla fine diventa una soluzione per vivere meglio. La gente nel mio lavoro l’umorismo lo percepisce ed è molto importante, è una delle cose che la gente apprezza di più prima forse anche della ribellione. La gente lo vuole lo desidera e lo capisce.
Freud disse che “l’uomo crea la società e la cultura per potersi meglio reprimere”. Attraverso la tua arte si può immaginare di ribaltare l’asserzione freudiana in: “l’uomo crea la società e la cultura per potersi meglio esprimere”?

È come la legge. Proporre un’arte è come proporre una legge nuova, è come una diga e poi c’è una breccia e l’acqua trova una via di espansione, per poi ritrovarsi un’altra diga. Penso che sia fondamentale aprire nuove vie, nuovi spazi di espansione. La tua domanda mi viene più da portarla sulla tematica dell’evoluzione, mi viene da chiedermi se ci sia stato o meno un miglioramento nell’evoluzione dell’uomo. Secondo me per certe cose si. Tendenzialmente penso che una società come la nostra, se si confronta a qualche secolo fa, sia cresciuta in positivo. C’è un’evoluzione positiva, ed è bene lavorare in questo senso. Si crea un’arte per arginare ma anche per dare più respiro. Io lavoro per questo. Ovviamente, quando questo disegno presentabile è finito creo un limite ma a quel punto il mio divertimento sarà di distruggere quel limite e quello dopo ancora.

Nella sicurezza sul lavoro una delle cause degli infortuni è la distrazione, dovuta a compiti ripetitivi, alienanti. Stessa logica a mio avviso può essere traslata al tema della sicurezza stradale. Credi che il tuo lavoro sui cartelli stradali possa essere anche un incentivo per limitare gli incidenti stradali o ti sono state mosse critiche nel senso contrario?

Si, mi hanno fatto critiche in questo senso, ma penso che sia il contrario, proprio per il fatto della ripetitività. La massificazione crea disinteresse, quindi distrazione. In realtà bisogna puntare sul senso di responsabilità, sulla concentrazione, sulla partecipazione. Meno massificazione e ripetitività ci sono e più c’è partecipazione.

Cosa pensi delle critiche di invasività? C’è chi addirittura parla di spam…

Sono punti di vista. Oggi sono passato vicino a un mio cartello e ci sono passato accanto senza nessuna emozione. C’è da trovare la giusta misura. C’è da dire che invento spesso nuovi soggetti. Mi sforzo e mi diverto ad inventare sempre nuovi soggetti. C’è anche un po’ di invidia nei confronti del mio lavoro, da parte sia di certi artisti che di altre persone, perché vedono qualcuno che si è permesso una libertà che loro non si permettono e questo fa arrabbiare. Sia artisti legati alla street art ma anche persone che non lavorano nell’arte vedono qualcuno che fa qualcosa di illegale e lo percepiscono come invasione. Io lavoro sull’invasione, finché ci sono cartelli io ho terreno su cui lavorare, che diminuiscano i cartelli, toglieteli. Tra l’altro molti rubano i cartelli. All’inizio un po’ mi gratificava il vederli rubare. Però la street art è una comunicazione, è pubblica, se tu rubi un cartello togli agli altri, più che a me togli agli altri.

Ci sono reazioni diverse da parte del pubblico e delle istituzioni a seconda del territorio in cui operi (Firenze, Torino, Berlino, Parigi, Londra)?

Non tanto in realtà. Le reazioni diverse sono dovute secondo me dalla grandezza della città. Più la città è grande più il mio lavoro viene immediatamente assimilato, viene lasciato, compreso, apprezzato. Più la citta è piccola e più la reazione è negativa, soprattutto da parte dell’autorità che si sente maggiormente in dovere di rimuoverlo. Le differenze non si notano tanto in relazione al pubblico quanto in relazione all’autorità. Ad esempio a Berlino li hanno lasciati. Magari si sono affrettati a far passare in televisione delle immagini del mio lavoro dicendo “questo non si deve fare”. Tra l’altro è buffo perché mi hanno fatto una pubblicità strepitosa . Anche a Parigi li lasciano, a Londra in parte. L’altro giorno ero in Bretagna, al mio paese, e ho bombardato una città, piccola. Dopo due giorni li hanno rimossi tutti. Le differenze si notano in relazione all’autorità locale. Lì c’è un governo di destra e probabilmente hanno voglia di far vedere che sono presenti, che comandano loro. Nella città grande hanno mille altri problemi, molto più importanti, e anzi, il mio lavoro viene visto come una cosa positiva. È il provincialismo che fa la differenza. A Torino adesso li hanno tolti quasi tutti dopo mesi. Anche a Firenze venivano tolti, ma io vivendo qua, continuavo a rimetterli e si son trovati a confrontarsi con il problema: o mi facevano la guerra o li lasciavano.

La scultura dell’Uomo Comune sul Ponte alle Grazie, mi rimanda al tema del cambiamento e del rischiare e rischiarsi per cambiare.. Tra i vari significati che sono stati attribuiti a quest’opera, l’interpretazione del suicidio e la rimozione della scultura possono essere pensate come a un modo del potere vigente di mantenere lo status quo, cioè come paura dell’effettiva presa di consapevolezza da parte dei cittadini di poter riappropriarsi dei propri spazi e della propria soggettività?

Certo, è proprio così, è il rifiuto a priori del cambiamento. Però secondo me alla fine ha funzionato, o meglio, il messaggio è passato. La prima reazione è stata il sequestro e la multa. Il testo della multa diceva che il mio lavoro “impediva la fruibilità del ponte”. Ovviamente la motivazione della sanzione non vuol dire niente, dovevano semplicemente farmi una multa. In seguito ho fatto ricorso e la multa è saltata. A Pistoia ero arrivato a 5000 euro di multa. Ho fatto ricorso e sono arrivato a 500, adesso ho fatto appello con l’obiettivo di annullarla. E comunque non pagherò mai. Sono un nullatenente, non ho il motorino, non ho la macchina, non ho la casa, non ho niente, i quadri non si possono pignorare, mi prendono la bicicletta?
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Che rapporto esiste secondo te tra Etica e Estetica?

Sono sempre stato uno che andava a farla questa domanda. Curiosamente anche da persone piuttosto valide ho avuto un tipo di risposta che negava il rapporto tra le due. Io non riesco a crederci, anche perché etimologicamente sono due parole talmente vicine… Non ho studiato né latino né greco però qualcosa in comune ci deve essere. Secondo me l’estetica è legata al visuale, al tatto, mentre l’etica si può intendere come l’estetica del pensiero, quindi un rapporto ci deve essere. Ma l’estetica è etica? E l’etica è estetica? Forse a volte sono la stessa cosa. Un rapporto ci deve essere, e lo cercheremo, anche senza trovarlo.

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