La mostra sugli anni ’70 a Palazzo delle Esposizioni si apre con uno scheletro umano coi pattini a rotelle. Uno scheletro avente al guinzaglio un altro scheletro, canino questa volta. L’opera è di Gino de Dominicis. Provocatoria, di rottura. Gli artisti di quegli anni sono stufi di dipingere come Dio comanda. Non vogliono sottomettersi alla linea, al colore, al pennello.

Il bello estetico è da evitare. L’arte è pedagogia, psicoanalisi, denuncia sociale.

La metafisica di De Chirico e il cubismo di Picasso passano il testimone all’arte povera. Un’arte fatta di tubi, assi di legno, pietre, rifiuti.

Il mare non è più dipinto su tela, ma ricreato su poliuretano espanso. Per generare una stella non ci vuole né un cielo né una storia di supporto, bastano cinque pezzi di ferro. La venere non è più quella di Botticelli, ma quella “ di stracci “. Le pietre che vedete sparse in terra fanno parte dell’esposizione.

L’estetismo cede a favore del concettualismo. L’arte non ha più niente da dire, è obbligata a provocare. Deve attirare l’attenzione, deve autogiustificarsi.

In un punto, in una virgola, in una sbavatura di colore, ovunque può celarsi l’agognato concetto. Se non lo vedete osservate meglio, c’è. Se anche dopo un’attenta analisi risulta mancante cercate ancora, l’opera non difetta mai, siete voi nell’errore.

Prima vi si offriva un paesaggio con animali, personaggi, narrazioni varie. Ora una tela blu monocroma. Prima si ammirava il dipinto o la scultura, leggendole come un romanzo. Ora si dà un’interpretazione del nulla.

Tuttavia la Roma degli anni ’70 non è stata solo la patria dell’arte povera e dell’arte concettuale, ma ha visto sorgere anche quella che sarebbe passata alla storia come transavanguardia.

Il quartetto Cucchi, Chia, Clemente, Paladino guidato dal critico Achille Bonito Oliva si riunisce ancora oggi nel wine bar Camponeschi di piazza Farnese. La loro è stata una reazione al rigorismo concettuale ed estetico, sono voluti “ tornare indietro “. Certo non proprio come nelle opere del Giorgione, ma pur sempre di dipinti stiamo parlando. Dipinti di facile comprensione e di impatto diretto.

Il pubblico ringrazia e può nuovamente stupirsi dinanzi alla tecnica, alla semplicità, al colore.

Questo ci fa pensare che forse non abbiamo più bisogno di tele squarciate o di “ merde d’artista “.

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Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Per ora ho pubblicato diversi articoli, un breve saggio e un racconto, “Ovunque tu sia” è il mio primo romanzo.

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