Con la mostra intitolata “Pietro Annigoni Presenza di un artista”, aperta fino al 6 gennaio 2014 in Via Bufalini 6, l’Ente Cassa di risparmio di Firenze fa gli onori a un maestro della pittura italiana del Novecento. Al di là della “presenza” di un consistente assortimento di opere esposte, ben 150 pezzi tutti di grande qualità, e al di là di quanti all’inaugurazione si aggiravano per le stanze ricordando la “presenza” del pittore, viene da chiedersi: Pietro Annigoni è una presenza ancora oggi?

Questa mostra esibisce, toccando diversi aspetti, il carattere inconfondibile dello stile di un pittore decisamente in controtendenza alle maggiori correnti artistiche dell’avanguardia novecentesca. Instancabile produttore, Annigoni si è esercitato magistralmente con diverse tecniche (in mostra: chine, sanguigne, affreschi, bronzi), mostrando così un legame originale con la tradizione artistica che rappresentò sempre il riferimento e il modello della sua pittura.

Occorre soffermarsi sul raffinatissimo disegno preparatorio dell’Abele (per l’affresco al convento di San Marco) per scoprire di essere davanti ad una rielaborazione dell’Ottocento d’accademia che arriva fino alla citazione esplicita, e che ci suona come un vero e proprio omaggio al celebre marmo Abele morente di Giovanni Duprè.


disegno preparatorio per Ciclo di affreschi in San Marco Firenze, 1939

Occorre ancora considerare che il dibattito artistico in quel momento era segnato dal confronto tra astrattismo e realismo, e che la ‘realtà’ di Annigoni è estranea alle mozioni avanguardiste, poiché si rifà invece ad un’iconografia classica. L’artista affermava infatti:

«Anche io sono un classico e mi lego molto al rinascimento anche se non ho dimenticato l’Ottocento. Per me è importante il “bello” che poi è da me inteso come “armonia” nelle proporzioni; e questo è veramente un concetto classico. Ho impostato in questo canone estetico tutta la mia pittura sia negli olii che negli affreschi».


Composizione Astratta, collezione privata

Chi andrà alla mostra si troverà allora incredulo di fronte ad un dipinto di sole campiture in rosso, in nero, in celeste e con spatolate di bianco: decisamente un ‘fuori programma’. Ebbene, non si dovrà cadere nella tentazione di considerare il dipinto una deviazione informale dalla linea della realtà che Annigoni stava percorrendo. Anzi, per quanto riguarda questa composizione astratta si trattò per lo più di uno scherzo, di un gioco con cui l’artista volle ridere dell’arte del suo tempo intrattenendosi con un collezionista amico. Annigoni infatti non si stancò mai di scommettere su un’immagine ideale della realtà e dell’uomo, che rappresentò sempre proponendo in modo nuovo forme storicizzate, confrontandosi esplicitamente con l’arte non figurativa. Ma c’è da dire anche che la tradizione in Annigoni è più che un espediente compositivo, poiché restituisce finalità morali che hanno sempre fatto della storia dell’arte il tramite di una concezione ideale dell’uomo. Ciò viene ben esibito nei ritratti. Annigoni ritraeva i suoi modelli come rappresentazioni ideali dei soggetti, giacché questi scaturivano dalla «lotta per catturare quella che io sono venuto chiamando la “terza persona”», il frutto dell’incontro tra «lo spirito dell’artista e il segreto del viso del suo modello».

In sostanza, nei ritratti, Annigoni ricercava ed esprimeva le profondità psicologiche del soggetto in un’osservazione appassionata dei modelli che aveva di fronte. Egli tendeva a tale aspirazione ogni volta che si cimentaa con una personalità nuova: che si tratti di un nobile di qualche corte o di un uomo di infima condizione sociale. Ne abbiamo una prova concreta soffermandoci in mostra davanti al disegno per il ritratto di Elisabetta la Regina Madre (1963), e davanti al grande ritratto del Cinciarda (1942), un clochard di Firenze. Così, sia una personalità di un certo calibro che un viso scalfito dalla povertà, si mostrano nella loro essenza profonda, trasfigurati sulla tela come degli “io” austeri e imperturbabili che non hanno l’urgenza di comunicare ma solo quella di manifestare la verità della propria esistenza.


Cinciarda, 1942

Si è parlato di “neo-umanesimo” per Pietro Annigoni che “mentre infuria l’assalto tecnologico, riafferma il primato dell’uomo” (U. Longo).

Il periodo della maturità di Annigoni, ossia tra anni ’50 e ’60, vede in Italia l’affacciarsi della rivoluzione di Fontana e di Manzoni, mentre in America troviamo Pollock che intraprende la strada dell’Action Painting e Warhol che accende la miccia della Pop Art; un periodo caratterizzato anche dalle scoperte scientifiche e dal loro potere distruttivo. Tali fenomeni segnano la sensibilità degli artisti, i quali si trovano a ripensare il fare artistico intraprendendo strade mai percorse (pensiamo alla visual art e all’arte performativa), e mettendo in discussione la materia principale del loro mestiere.

Mentre dunque si dibatte intorno all’ubi consistam dell’opera d’arte, Annigoni ripropone la figura umana e un mestiere secolare. Forse non è abbastanza per fare di lui una “presenza” all’interno di un secolo così ricco e complesso come il Novecento, ma la voce di Annigoni, morto nel 1988, continua ad emergere nella sua verità, per la costante ricerca personale e grazie alla felice qualità pittorica.

La mostra è visitabile fino al 6 gennaio, da lunedì a venerdì: 9-19, e sabato e domenica: 10-13, 15-19. L’ingresso è gratuito.


Annigoni nel suo studio, foto di Russell Westwood, 1955

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