L’attesa è stata lunga: quattro anni lontano dall’Italia e il ritorno per presentare un album più che convincente erano già motivi sufficienti per non perdere questo concerto, non a caso sold out da mesi.
E basta vedere salire la band sul palco dell’Alcatraz per trasformare la serata in evento; al posto di Thomas Wydler, purtroppo malato da tempo, torna come polistrumentista lo straordinario Barry Adamson, membro fondatore e assente da 17 anni, e gli arrangiamenti della serata confermeranno che la scelta è azzeccata.
L’apertura è affidata alla doppietta We No Who U R e Jubilee Street, dal nuovo Push The Sky Away; cupe, dirette e più elettriche del previsto, ci fanno scivolare meravigliosamente tra le avvolgenti note di due pezzi amatissimi, quali Tupelo e Red Right Hand. L’atmosfera è caldissima, la band in un sincero stato di grazia e, giusto sottolinearlo, il violino di Warren Ellis, spesso troppo preponderante in passato, pare aver trovato la giusta collocazione.
Siamo in tanti a sentirci orfani di Blixa Bargeld e, soprattutto, di Mick Harvey nel ruolo di rumoristi live, ma finalmente i Bad Seeds suonano omogenei e sognanti come quindici anni fa.
Del resto, il buon vino migliora invecchiando. E il combo di Nick rientra nella categoria meritoriamente.
Le canzoni nuove, decisamente coinvolgenti dal vivo, si alternano a classici anche inattesi come From Her To Eternity a un ritmo incalzante, che ha solo un piccolo “calo” nell’intermezzo acustico.
È però anche giusto rallentare e concedere respiro alla platea, ed ecco quindi che si susseguono West Country Girl, God Is In The House, Love Letter e Into My Arms: voce, piano, percussioni e basso appena sussurrati, uniti a un pubblico commosso che accompagna il vangelo laico di Nick.
Ancora due pezzi nuovi, tra cui la title track e due “inni” mirabili come The Mercy Seat e Stagger Lee, quest’ultima suonata con un pathos paragonabile all’era Bargeld, ci portano alla fine del set principale.
La pausa è brevissima, si riprende quasi subito con We Real Cool, ultimo ma ancora notevole estratto dal nuovo album, per poi donare al pubblico una tripletta da lacrime: Deanna, incalzante, fragorosa, col pubblico in delirio. Poi, Do You Love Me?, che Nick canta lasciandosi accarezzare dall’intera prima fila in delirio e infine un’ipnotica Papa Won’t Leave You Henry, ormai entrata da anni nel novero dei classici, e a ragione.
Come ai tempi delle grandi orchestre, è giusta in conclusione una menzione d’onore per la sezione ritmica, col basso di Casey perfetto e cupissimo e Sclavunos a suo agio nella veste di “solo” batterista, senza trascurare il buon lavoro del nuovo entrato George Vjestica alla chitarra (mai preponderante, come da copione per l’atmosfera crooner) e del sempreverde Conway Savage, timido ma eccellente alter ego di Nick al piano e tastiere.
Due ore intense, pochi giochi di luce virati al rosso sangue e al blue, inteso come stato dell’anima: quell’anima che il Re Inkiostro sa sempre toccare e stritolare meravigliosamente.
SCALETTA:
01 We know who U R
02 Jubilee Street
03 Tupelo
04 Red Right Hand
05 Mermaids
06 The Weeping Song
07 From her to Eternity
08 West country girl
09 God is in the house
10 Love letter
11 Into my arms
12 Hicks boson blues
13 The mercy seat
14 Stagger Lee
15 Push the sky away
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16 We real cool
17 Deanna
18 Do you love me?
19 Papa won’t leave you Henry