Era un’altra Firenze quella in cui nacque Vasco Pratolini, a un anno dalla grande guerra. Una Firenze con il grembo fecondo di riviste e personalità che avrebbero segnato un secolo: il caso avrebbe potuto farvi bere un caffè nella stessa tazzina usata ore prima da Eugenio Montale, o farvi capitare tra le mani una copia di “Campo di Marte”, fresca di stampa, facendo scorrere i vostri occhi sui versi di Mario Luzi. È vero, si trattava anche di un tempo in cui gente qualsiasi, vestita in modo normale, consumava le proprie forze spesso in mestieri qualunque e i gradi dei propri occhi per rendere un’epoca il Novecento che conosciamo, senza troppi modi di fare, senza troppa cura per le etichette da incollarsi addosso: era gente malata di un amore incondizionato, che spesso porta grandi conseguenze. Uno di questi uomini era proprio l’autore de Le Ragazze di Sanfrediano, figlio di un cameriere e di una sarta, cresciuto in via de’ Magazzini e poi in via del Corno, una piccola strada alle spalle di Palazzo Vecchio. La sua storia può entusiasmare non solo un aspirante scrittore, ma anche chi allo stesso modo in altre direzioni fatica giornalmente per raggiungere una meta, come spesso accade in questi tempi in cui le strade non sono più sicure, e non mi riferisco al degrado, ma al destino infame di una generazione.
“lasciare ogni cosa. Vissi i miei giorni in biblioteca, pianificando le mie letture. Cominciai a conoscere Croce, la filosofia tedesca, dopo aver digerito ed essermi sostanzialmente nutrito degli illuministi. E la frequentazione dei classici ai quali sempre tornavo: Compagni, Boccaccio, Sacchetti”.
Sono le parole che Pratolini utilizza per descrivere la sua decisione quando abbozzando racconti si accorge di aver bisogno degli studi che non ha mai acquisito. La sua esperienza scolastica è infatti brevissima: dopo essere stato cacciato dagli Scolopi per indisciplina impara a leggere e scrivere da solo, spinto da una smania di conoscere che lo guida in letture sempre più impegnative. A diciassette anni si guadagna da vivere come garzone di bottega, leggendo di notte a lume di candela. Quando si trasferisce in via Toscanella il caso gli assegna un vicino non proprio qualsiasi: Ottone Rosai. È lui a introdurlo nell’ambiente degli scrittori che frequentavano la sua casa. Prima dei vent’anni conosce le opere di Piero Jahier, Aldo Palazzeschi, Federigo Tozzi, Manzoni e London, ma gli scrittori per lui fondamentali sono i “D.”: Dante, Dostoevskij, Dӧblin, Dreiser, Dickens. Riconosciuto quindi il limite che gli impedisce di intraprendere un percorso di scrittura cerca di recuperare le nozioni scolastiche mai apprese: continua a lavorare come vice portiere d’albergo, impaginatore di giornali, poi come rappresentante di commercio, frequenta un corso serale di francese, e si reca all’università come uditore. Poi la decisione di lasciare ogni cosa: abita da solo in via Ricasoli “accanto all’uscita di sicurezza del cinema Modernissimo, in una camera in subaffitto”, si mantiene lavorando in una biblioteca per conto di alcuni amici studenti dell’università, ma guadagna talmente poco che in pochi anni è sull’orlo del deperimento fisico per il freddo e la denutrizione. A conferma dell’indissolubile legame tra esperienze di vita e letteratura, molte opere di Pratolini emergono da circostanze intense che hanno segnato la sua esistenza: a pochi mesi dall’inizio della collaborazione con “Il Bargello” viene colpito da una grave malattia polmonare e passa quasi due anni in sanatorio, e da questi stati d’animo nascono le prose di Gli Uomini Che Si Voltano, raccolte poi in Diario Sentimentale, del 1956. Nel breve intervallo tra le due degenze di quel periodo conosce Elio Vittorini, un incontro che farà la differenza, che gli permetterà di approfondire la sua innata tendenza a fondere dimensione politico-sociale e culturale, qualcosa di cui oggi avremmo un terribile bisogno. Vittorini inoltre gli apre le porte della rivista “Letteratura”, sulla quale pubblica il suo primo racconto Prima Vita di Sapienza. Sempre a Firenze, nel 1937, conosce Alfonso Gatto, con cui fonda e dirige la rivista “Campo di Marte”, la storica rivista bloccata dalla censura fascista, che sospende le pubblicazioni nel 1939, dopo un solo anno di vita, ma che in un così breve lasso di tempo ha già radunato un buon numero di nomi fondamentali della storia della nostra letteratura. Pratolini quello stesso anno si trasferisce a Roma e lavora al Ministero dell’Educazione nazionale, nell’ufficio per l’arte contemporanea e continua nella sua abitudine di lavorare di giorno e di scrivere e tradurre di notte, instancabile. Continua a collaborare con numerose riviste: “Primato”, “La Ruota”, “L’Ambrosiano”, “Il Popolo di Roma”, “Domani”.
Nel 1941, dopo l’8 settembre, si unisce alla Resistenza romana come caposettore del Partito comunista italiano con lo pseudonimo di Rodolfo Casati, esperienza che racconterà nel 1954 ne Il Mio Cuore a Ponte Milvio, la zona in cui prese parte alla azioni partigiane. Il passo da vita a letteratura, attraverso il filtro della coscienza, è brevissimo nei suoi scritti, e questo lo rende un sensibilissimo neorealista, capace di far filtrare le atmosfere di un’epoca che muta attraverso le raffinatissime pagine dei suoi libri.
Dal 1951 il suo nome appare in film come Paisà di Roberto Rossellini, Rocco e i Suoi Fratelli di Luchino Visconti, Le Quattro Giornate di Napoli di Nanni Loy, La Viaccia di Mauro Bolognini. Le sue collaborazioni sono numerose e costanti.
Le parole di questo autore sono indissolubilmente legate alla città di Firenze, specie nella prima parte della sua produzione letteraria, fortemente autobiografica, precedente al 1945, in opere come Il Tappeto Verde, in cui propone una prospettiva morale ed esistenziale dei quartieri popolari in cui i suoi personaggi si muovono, un proletariato intriso di umanità nel quale egli sente di riconoscersi. I ricordi di via de’ Magazzini emergono dando vita a Le Amiche e Il Quartiere, o ancora Cronache di Poveri Amanti del 1947,
dove la vita del popolo fiorentino viene rappresentata negli anni 1925-1926, quando la violenza fascista si è già distesa sulla città. Lo sfondo è via del Corno, ancora il vecchio quartiere fiorentino dove ha trascorso la sua adolescenza. Sono opere queste che gli valgono il premio Libera Stampa 1947, e che ci introducono in un mondo scomparso. E ancora Firenze è lo sfondo de Le Ragazze di Sanfrediano, in realtà breve pausa dall’impegno, esercizio di divertimento letterario, ma è un testo ugualmente raffinato, che denota una capacità di modellare la parola fuori dal comune.
La sua visione e il suo impegno sono attenti ai fatti storici del nostro paese, la guerra, la resistenza, le classi sociali e la loro dimensione esistenziale, ma anche il nuovo sviluppo, come nella trilogia Una Storia Italiana, dedicata all’Italia degli ultimi anni ottanta. Ancora mutamenti storici, ancora storia di un’epoca. È un testimone lucido Pratolini, che fonde con la letteratura eventi storici e ricordo, impegno sociale e cultura, e la storia delle sue opere è ricca di riconoscimenti, ma anche di polemiche e dibattiti: è il caso di Metello, che gli valse il premio Viareggio nel 1955, in cui quelli che Anceschi chiamava “esercizi d’una malinconia nella memoria” sono sovrastati dalla patina moralistica e politica, e questo è sufficiente a scatenare un’accesa polemica di natura ideologica, che vede contrapposti cattolici e marxisti, senza esclusione di colpi. Tutto questo sfocia in un vero e proprio riesame della sua opera. E ben presto la dinamica è desinata e ripetersi, seppur in misura minore, con Lo Scialo, del 1960. Ma ormai Pratolini era già entrato a far parte dell’Olimpo della letteratura, e nel 1957 l’Accademia dei Lincei gli conferisce il prestigioso premio Antonio Feltrinelli, come riconoscimento della sua intera opera narrativa. Ma la sua grandezza era già stata confermata dal successo di pubblico, e da molti suoi romanzi erano già state tratte sceneggiature per altrettanti film: Cronache di Poveri Amanti, con la regia di Carlo Lizzani nel ’54, Le Ragazze di Sanfrediano diretto da Valerio Zurlini, che nel ’62 realizza anche Cronaca Familiare, Leone d’Oro alla Mostra d’Arte cinematografica di Venezia, o ancora Monicelli nel ’55 con Un eroe dei nostri tempi e Metello realizzato da Mauro Bolognini, o La costanza della ragione di Pasquale Festa Campanile.
Non è facile ricostruire l’intensa attività di questo autore tradotto in tutto il mondo in oltre venti lingue. Forse un aiuto può darlo una sua frase, tratta da un’intervista a Camon, in cui Pratolini afferma che fare letteratura equivale a “degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo”. Si comprende quindi sin da subito l’importanza di un nome che ha significato costante attenzione all’uomo e al suo rapporto con la realtà: una lezione letteraria che non solo non andrebbe mai dimenticata,
ma che può essere uno dei tanti punti di partenza per proseguire nella letteratura del nostro tempo – troppo spesso smarrita in lontananze dal mondo e artifici – e che può divenire un simbolo di quella tradizione che rappresenta sempre una fertile base nel momento in cui si decide di indagare la realtà e i meandri dell’essere umano, compito privilegiato di quella scrittura che non vuole essere un semplice e breve spettacolo o un inutile esercizio di stile.