Quello del duo californiano Deap Vally con “Sixtrionix” (28 giugno 2013, Island Records) è, senza dubbio, l’esordio rock più interessante del 2013. Anzi, a ben vedere, Lindsey Troy (voce e chitarra) e Julie Edwards (batteria e backing vocals), si erano già fatte notare e non poco con il singolo di debutto “Gonna Make My Own Money”, che, uscito nel luglio del 2012 su Ark Recordings, le catapultò direttamente sui prestigiosi palchi dell’Hyde Park Calling, del Latitude, del Reading and Leeds Festival e, in seguito, in tour nel Regno Unito assieme a The Vaccines e come supporter dei Muse nelle date dicembrine di Helsinki, Tallinn, Riga e Amburgo.
Non male, direi, per le ragazze, che da allora non hanno smesso di macinare strada tra Europa (in Italia sono state a Marzo assieme ai Mumford & Sons e poi a luglio a Ferrara e Milano), Giappone, Australia, US, fino all’incredibile Coachella, alla recente performance a Glastonbury (link yutube) e al prossimo ritorno al Reading and Leeds Festival.
Ma torniamo un attimo indietro, all’incontro, non propriamente ortodosso, del duo. Nella frizzante Los Angeles, le lezioni al corso di uncinetto, dove Julie, componente dei The Pity Party, insegna e Lindsey, già membro assieme alla sorella Anna del teen duo The Troys e all’epoca impegnata nel lancio di una carriera solista, di cui ad oggi rimane l’EP “Bruises”, apprende, trascorrono nella serafica atmosfera consona alla pratica. A un certo punto salta fuori la comune passione per il blues, seguono lunghe chiacchierate sul tema, fino alla scintilla che si trasforma in incendio, sconvolgendo il normale decorso degli eventi, per cui uno più uno non farà più due.
Le Deap Vally sono sulla scena. Suonano un hard blues sporco e a tratti cattivo, oltraggiosamente femminino e coscienziosamente femminista, fatto di chitarre distorte, riff pregni, ben torniti, potenti e di un drumming in cui ogni singolo colpo ha un significato e che, andando apparentemente poco per il sottile, spinge i riff e riempie ogni meandro lasciato libero dalle chitarre e dal cantato al limite dello sguaiato di Lindsey. Sorellanza rock’n’roll, che trova la massima espressione nel rapporto egualitario degli elementi in gioco e nel loro acceso dialogo.
Alla BBC le hanno definite “un White Stripes incontrano i Led Zeppelin duo”, il Guardian ha parlato di loro come “un Robert Plant senza testosterone”, accostandoli nuovamente e come tanti altri ai White Stripes. Tuttavia, l’inevitabile riferimento al duo di Detroit, dettato dalla formazione voce, chitarra e batteria, non tiene in debito conto le caratteristiche specifiche del duo di L.A., che si distacca dall’affilato minimalismo di Jack White, che nel caso di Meg White diventa, invece, sciatteria d’emergenza. I Led Zeppelin e il nella-fattispecie-menzionato Robert Plant li lascerei lì dove sono, ossia nel Valhalla.
In realtà, mentre per il modo di trattare gli strumenti nell’ambito di un duo risultano molto più vicine ai Black Keys, rimane innegabile la presenza nel sound delle Deap Vally di qualcosa di riconducibile al geniale Jack White, quello di The Dead Weather e The Raconteurs, ma d’altronde chi nella scena rock attuale non ne ha subito la benefica influenza?! Se poi teniamo conto del fatto che Julie è musicalmente cresciuta all’ombra di Carla Azar, che prima di diventare la batterista della band di sole donne che accompagna Jack White nel suo progetto solista, militava negli Autolux, il gruppo del fratello della Edwards, che giovanissima la prese come punto di riferimento, la connessione risulta ben più radicata e profonda, certo non casuale.
Detto questo, le undici tracce prodotte da Lars Stalfors (The Mars Volta), che compongono “Sixtrionix”, sono figlie del sound dei grandi gruppi hard blues e punk rock degli anni Settanta, veicolato tramite un attitudine che ha molto a che vedere con la decadenza degli anni ’80, sfociata nel mood autolesionista del grunge e nella rabbia di tanto cantautorato femminile nei primi ’90, di cui le Deap Vally conservano buona memoria.
Non a caso dunque, vagliate tutte le ipotesi millenaristiche, Lindsey e Julie aprono il loro avveduto lavoro facendo il punto della situazione con “End Of The World”, in cui colgono l’occasione per ribadire che: “Non c’è tempo come il presente per aprire i nostri cuori e lasciare che l’amore li pervada. […] Non c’è tempo speso peggio di quello passato ad odiare. […] L’odio è un parassita, l’odio ci mangerà vivi se glielo concediamo, ma noi non glielo concederemo”, il tutto su una base di chitarra e batteria che rimuginano stantie fino alla distorta esplosione del chorus.
Un incipit intrigante e gravido di aspettative, che la seconda traccia “Baby I Call Hell” certo non disattende: il riff si pianta dritto in testa così com’è, portato prima dalle due voci e poi dalla chitarra e sottolineato da una batteria semplice, ma estremamente incisiva. E se il pezzo d’apertura poteva lasciare ad intendere di avere a che fare con della freakettonaggine pacifista, con “Walk of Shame” prosegue il crescendo di rivendicazioni iniziato con “Baby I Call Hell”: “Mi incamminerò sul sentiero della vergogna e, piccolo, non mi sento per niente in colpa, perché ci sono posti in cui devo andare, ma non ho un cambio di vestiti”. Dure e pure, chitarra e batteria si muovono praticamente assieme per tutto il pezzo, fino al coinvolgente stomp del finale.
Dove le porterà questo sentiero della vergogna ce lo dicono nel pezzo seguente “Gonna Make My Own Money”, forse il brano più forte dell’album, nel quale il pallino del discorso è lasciato a voce e batteria e, mentre la chitarra puntella massiccia il cantato, le sorelle rock’n’roll si sfogano in un cazzuto inno all’emancipazione: “Mi dici di sposare un uomo ricco, trova un uomo ricco se puoi, ma padre non capisci, io farò i miei soldi e comprerò la mia terra”.
Lontano da chi e da cosa, ce lo dicono “Creeplife” («Tu eri un lupo, proprio come un uomo, io ero una ragazza, proprio come un agnello, tu bramavi della carne tenera, qualcosa di delicato da mangiare. Non osare, non osare!»), a dire il vero uno dei pezzi meno esaltanti dell’album, impreziosito esclusivamente da qualche cambio di ritmo ben congegnato e “Your Love”, un pezzo morboso, esattamente come il tipo di rapporto di cui parla («Il tuo amore è una bugia, il tuo amore mi tiene in vita»), che rialza l’asticella ai livelli a cui ci avevano abituati con i primi quattro brani: grandissimo feeling, bridge psichedelico e finale pacificato. E poi ci sono le bugie di “Lies”, che abbandonando gli indugi della coda del pezzo precedente esplode in un riff, che stabilisce con chiarezza il clima acido del brano, una dichiarazione di guerra ben scandita nel bridge: «Pensavo fossimo d’accordo che non avevi bisogno di spargere il tuo seme, ma di fatto hai rotto il tuo contratto, pagherai dieci volte tanto, invecchierai solo».
Ad alleggerire l’atmosfera, un tantino tesa, il mea culpa di “Bad For My Body”, una birichinata punk rock, in cui a un riff di chitarra dalle poche pretese si affianca una batteria altrettanto basilare: «Se solo le nostre madri sapessero il guaio in cui ci stiamo andando a cacciare…».
Ma la parentesi faceta dura giusto il tempo di un pezzo, dato che con “Woman of Intention”, le due tornano a fare le spesse, riuscendoci: l’intro di chitarra gorgoglia sporco e rabbioso prima dell’arrivo del riff massiccio e squadrato, che procede assieme al cantato nervoso fino al chorus, dove la chitarra dell’intro viene ripresa in un’alternanza di tensione e rilascio, che fa di questo pezzo il perfetto trampolino di lancio verso la fine dell’album.
Reattori a pieno regime. La batteria ticchetta in “Raw Material”, mentre la chitarra puntella ogni singola battuta, fino a esplodere nel pre chorus per lievitare sempre più nel chorus, fiammate di distorsori, stato confusionale incrementato dalla ritmica ossessiva del cantato, che si spegne elegantemente in un coro dal sapore soul per poi tornare a ruggire.
Ma la sorpresa, piacevole, arriva proprio alla fine con il blues vecchio stile di “Six Feet Under”, seguito dalla secret track “Spiritual”. Un brano succosissimo nell’essenzialità della strofa e nel gonfiore gravido di sofferenza del chorus. Non c’è pacificazione in questo ritorno alle radici, solo un modo diverso di rapportarsi a rabbia, dolore, mancanza e delusione: «Sei piedi sottoterra e ancora mi guardo in giro. Credevo che mi fossi amico, ma dove sei ora?».
Incazzate erano arrivate e incazzate se ne vanno, con in tasca un album vivo, coerente e attraversato da una tensione praticamente costante.
Lunga vita a queste due portatrici sane di vagina e di genuino rock’n’roll!