Ho abitato in Salento per una dozzina di anni, sono arrivato nel 2004 quando il turismo si affacciava timidamente all’orizzonte e la “taranta” non aveva ancora mozzicato tutti. Negli anni l’ho visto cambiare ed allo stesso modo sono cambiate le sue rappresentazioni, ma una sola è riuscita ad essere fedele raccontando un territorio lontano da riflettori e discoteche e catturandolo nella sua essenza. Oggi facciamo due domande a Gabriele Albergo, direttamente dalla Death Valley.
Chi è Gabriele?
In realtà non lo so ancora… sicuramente sono una persona che nel tempo ha attraversato tante fasi “sono stato tante cose”: fare il fotografo è una delle ultime e per adesso sta resistendo più del previsto.
Molto spesso si parla di Salento, “in Salento”, “nel Salento”… allo stesso modo nelle tue foto non compaiono quasi mai riferimenti geografici. Ma cosa è il Salento? e quale è invece la tua “zona” di interesse?
Il Salento è uno stato d’animo… buahahahah scherzo.
Il Salento è un posto che per secoli non è esistito e adesso è il sogno di tutti. In realtà io ci sono molto legato, abbiamo luoghi incredibili. Amo la costa del sud da Otranto a Santa Cesare Terme, è un luogo primitivo ed arcaico, me lo immagino nei secoli… uno sballo.
Molto spesso le tue foto raccolgono situazioni strane, fuori dal comune – o da quello che può essere l’aspetto comune di una vicenda. Sembra che le tue foto raccontino qualcosa sospeso nel tempo. Come “giustifichi” questa scelta?
Forse perché ‘sta componente esiste. Lo si nota soprattutto nell’entroterra, a volte ti giri e ti ritrovi negli anni ’80… con tutto ciò che comporta: ritmi, abitudini, comportamenti ecc.
In diverse interviste hai affermato di essere figlio d’arte e di esserti avvicinato alla fotografia da piccolo nel laboratorio di tuo padre. Quando è arrivata di preciso l’ispirazione? E quale mezzo preferisci per scattare le tue fotografie: analogico o digitale?
Sono nato e cresciuto nello studio di mio padre: lui era un ottimo fotografo, ma onestamente non ero per niente interessato alla questione, pensavo soprattutto a suonare e per la maggior parte del tempo ero tra le nuvole. Poi a 30 anni abbondanti mi è venuta voglia di provare e da lì in poi non mi sono più “ripreso”.
Solitamente scatto in digitale ma anche con il cellulare, in passato ho scattato molto in analogico – cosa che comunque vorrei riprendere a fare.
Sempre parlando di digitale: molta della tua produzione si snocciola su Instagram. Vorrei chiederti che rapporto hai con i nuovi media, con gli smartphone. Credi che possano mai sostituire la macchina fotografica?
Sì, probabilmente il futuro andrà in quella direzione. Siamo solo all’inizio, ‘sta cosa un po’ mi inquieta ma non sono un reazionario, accetto che fa parte della natura umana. Praticamente la totalità delle mie immagini sono su piattaforme social, anzi molta delle mia “visibilità” viene da lì e non mi dispiace, mi ha aiutato, riconosco però che c’è una quantità di immagini spaventosa in giro.
Gira voce che prima di essere fotografo, ma anche in contemporanea alla fotografia, hai suonato in diverse band. C’è qualcosa che accomuna lo spirito da musicista e quello da fotografo?
Io oserei dire che nella tua fotografia c’è un approccio molto hardcore, dimmi se sbaglio.
Sono voci infondate!!
Ho suonato per una vita, dai 14 anni ad oggi praticamente, in realtà sono rimasto sempre qui solo per quel motivo e ci credevo molto. L’hardcore rimane prima di tutto una visione dell’esistenza, spesso il frutto di disagio e disadattamento – evidentemente ‘sto disagio è rimasto.
Tra i tuoi progetti principali ci sono La terra del rimorso e gli scatti al Gertrude Fami, ti va di parlarcene?
La terra del rimorso è una serie di scatti in analogico con pellicole scadute, fatta tra il 2013 e il 2016 sul territorio. Immagini molto dirette, quasi topografiche: mi bastava impostare l’esposizione e scattavo tutto quello che vedevo senza pensare alla luce o ad altro.
Gertrude Fami è una serie di scatti fatta nel centro per migranti minori in cui ho lavorato per due anni. L’interno, gestito da suore, era arredato come una classica casa salentina e il contrasto con i ragazzi era molto particolare.
Ultimamente sei stato ospite di festival culturali ma hai anche collaborato con realtà che promuovono un nuovo volto per una terra che ha una tradizione millenaria. Secondo te quali strade ha il Salento per il futuro? Ti va di sbilanciarti con qualche previsione?
Non saprei, in realtà non la vedo bene: le campagne vanno verso la totale desertificazione dovuta alla xylella e idem i centri storici, muoiono i nonni/e e le case rimangono vuote.
Sempre parlando di territorio… il Salento negli ultimi anni è stato al centro di una campagna mediatica che ha visto contrapporsi da un lato l’interesse economico rappresentato da un gasdotto, dall’altro le popolazioni locali che volevano salvaguardare il territorio.
Non voglio chiederti politicamente come si schiera la Death Valley ma se, secondo te, la fotografia oggi può essere ancora vista come un’arma sociale. Credi che sia ancora tempo per realizzare fotografie “evocative” soprattutto nelle lotte?
Ci sono stato nei momenti in cui iniziavano i lavori del gasdotto, ovviamente sono contrario all’opera, però non credo faccia per me documentare fotograficamente queste situazioni, anche se apprezzo molto chi lo fa. Penso che comunque la fotografia sia un mezzo molto potente e forse sì, anche un’arma sociale – ed è bello perché ci dà tanti modi per poterlo fare.
Le tue foto stanno girando molto ultimamente. Quale è il supporto che preferisci per le tue opere? Come e dove ti piace vederle stampate? Esiste qualche cornice in particolare a cui ambisci per presentare la tua Death Valley?
Mah, nulla di particolare, anzi a volte espongo su carta da manifesti. Non sono molto attento a questo aspetto della fotografia, mi affido al mio stampatore e per me è ok.