Iniziamo da una domanda tutt’altro che facile: meccanico, fotografo, performer… come nasce Jacopo Benassi e che background si porta dietro?
Parto cesareo, eravamo due! A scuola facevo ridere i compagni per tutto il tempo e scrivevo Punk Not Dead ovunque. Medie mai finite, esco con una bella quinta elementare. A quindici anni meccanico e anarchico che occupava posti, poi Sergio Fregoso, un grande guru di La Spezia, mi fece capire che dovevo prima guardare bene gli altri fotografi, poi le mie foto. Il mio background? Devo dirti che non mi guardo mai dietro e lo perdo, muoio e rinasco sempre, ma sempre uguale a quello di prima.
Attualmente risiedi a La Spezia e in una recente intervista hai affermato di passare molto tempo nel tuo studio (al netto della quarantena). Hai contatti a Milano, a Bologna ed in chissà quanti altri posti, ti sposti spesso per lavoro ma alla fine hai stabilito il tuo quartier generale a La Spezia: da cosa è dettata questa scelta e quale è la geografia di Jacopo Benassi?
Pochi amici, la mia piazza Brin davanti alle finestre, la vita del mio quartiere popolare vicino alla stazione che si mescola ai turisti di ogni tipo passando in mezzo a barboni, tossici e ad una quantità di sudamericani che urlano. Poi c’è il bar della piazza, il bar sotto i portici dove passo parte della giornata a ridere, litigare e bere caffè, poi c’è il mare. Non ci sono gli aperitivi ma i gotti di vino, io tra l’altro non bevo… e poi vivo parte della giornata in studio, che è sempre li vicino ai treni. Amo vivere il mio lavoro intensamente come uno scultore o un pittore, non come un fotografo, Poi diciamolo, con il treno mi muovo tranquillamente ovunque, mi piace essere un sicario che arriva, colpisce e se ne va…
Cosa ti porta a scegliere una città piuttosto che un’altra? Inoltre vorrei chiederti, siccome vengo anche io da una città di mare, credi che certe “abitudini” e certi panorami, influiscano sulla produzione artistica?
Non penso. Io vado al mare per fare il bagno, sono i milanesi che mi fanno scoprire i panorami. Io lo vivo veramente il mare, come un bambino che sta in acqua 3 ore, esce e torna a casa! Loro invece devono goderseli ‘sti panorami perché poi tornano a Milano, poverini….ultimamente vivrei più a Roma che Milano: è più vera, a Milano l’underground è sparito completamente, mentre Torino, Roma e Bologna (che ormai considero la mia seconda città) le trovo più vivibili per il mio modo di vedere il mondo. La mia produzione artistica si contamina senza che io lo sappia: non mi rendo conto di quello che mi sta influenzando perché odio pensare, ora scrivendo mi sembra di diventare pazzo! Non rileggo e spero che tu corregga gli errori che faccio. Grazie.
Parlando di fotografia: Aphotography, Vade Retro, The Ecology of Image sono alcune delle prime opere di Benassi che finiscono sotto l’occhio dei riflettori, ma cosa è successo prima? Come ti avvicini alla fotografia e perché scegli proprio questo modo di raccontare?
Ti devo confessare che io non ho scelto! Questo modo di raccontare viene da dentro di me, che solo al pensiero di capire perché lo faccio mi crea un’angoscia pazzesca. Il mio lavoro è uno stato di benessere, mentre lo faccio lo sento sulla pelle come scopare o come cagare, ti liberi e godi allo stesso momento. Non mi guardo mai dietro, te l’ho già detto. «Non, je ne regrette rien». Il mio lavoro lo vivo totalmente e mi fa stare bene!
Nelle tue foto fai molto uso del bianco e nero. Azzardando una similitudine: è come se ti trovassi in una stanza buia e usassi il flash come una torcia per vedere cosa ti circonda. Vorrei chiederti quale è il tuo approccio al soggetto: cosa cerchi in quello che vuoi fotografare? Da cosa dipende la tua scelta di fotografare qualcuno o qualcosa e cosa ti fa perdere interesse in qualche progetto?
La mia performance con i Kinkaleri, con SISSI e le mie personali nascono dal buio, perciò è vera la tua sensazione! Io vedo oramai sempre in bianco e nero, non so perché, lo faccio e basta. Non mi sono mai detto “oggi fotografo solo in bianco e nero”! Mai! Tu decidi quando ti viene la febbre o ti tagli o ti viene un brufolo? Ecco io non decido, succedono le cose dentro di me e le seguo. Ti posso dire una cosa che non ho mai detto: tutti pensano che io amo la fotografia sporca. Ecco, non è vero: amo la definizione e difatti uso Leica Monochrome. La mia scelta è dettata dalla mia vita, da chi incontro. Esempio: i primi travestiti li fotografavo per avvicinarmi al mondo gay dal quale scappavo, però diciamo che non sono il tipo di artista che vuole fare un lavoro figo e originale e parte per l’Alaska.
Di recente, in una diretta instagram, hai voluto sviare l’attenzione dalla tua fotografia per proporre qualcosa di nuovo: una performance sonora in cui “loopavi” il click della macchina fotografica. Non sei nuovo a questo genere di proposte: è doveroso citare quando in passato ti sei “suonato” e hai fatto campionare il tutto a Jochen Arbeit; potrei citare anche il BTOMIC, l’amicizia con i tuoi concittadini hardcorini Fall Out, l’immancabile e statuaria maglia dei Crass… quale sarebbe la playlist ideale di Radio Benassi? Quanto è importante secondo te lo staccarsi dall’arte borghese per sottolineare la vicinanza ad altre sfere culturali?
Mi stai chiedendo tanto, non riesco a rispondere ad una domanda così grossa! Ci provo… la musica fa parte di me dopo la mia esperienza del BTOMIC, precedentemente alla Skaletta e prima ancora al c.s.a Kronstadt passando dai Fall Out, con cui collaboravo spesso… la mia esigenza è stata quella di salire sul palco pur non sapendo suonare. La musica è stata fondamentale nel mio percorso, io faccio i libri come se stessi suonando le pagine, creando un ritmo con le immagini e le pagine vuote, a volte fa più una foto da sola che 4 in unica pagina ma molti non sanno rinunciare e riempiono i libri di foto e formati creando confusione, io lavoro sulla rinuncia, rinuncio alle foto belle a volte per avere un buon libro! “Anche cadere è ballare” disse Trisha Brown, la coreografa americana. Ecco, io cado sugli strumenti e suono, non recito ma documento in tempo reale una mia azione!
Crass, Metallica, Motörhead, Einstürzende Neubauten, Miles Davis, Nick Cave, Bonzo Dog Doda Band, Pink Floyd, Modugno, Gabriella Ferri, Soulwax, tutto il punk del ’77 americano e parte di quello inglese. I Crass sempre per primi, come vedi!
Questo spirito punk si legge molto anche nelle tue produzioni. Lo stile tipico delle zine, l’autoproduzione…fino al recente acquisto della macchina per timbri. Ti va di dirmi due parole su una delle tue ultime uscite Light On My Way?
Light On My Way nasce da un lavoro che avevo in un cassetto e non lo sapevo: erano foto scattate durante la veglia funebre di papa Wojtyla a Roma. Sono sceso da Spezia e per tutta la notte ho fotografato la veglia, poi le ho messe in un cassetto e dimenticate. Durante la quarantena le ho ritrovate e impaginate inserendo dei testi in inglese tratti dalla veglia di Elvis Presley. Ho trovato una connessione tra Elvis e il Papa, il titolo difatti l’ho preso dalla Bibbia. L’opera è ispirata al libro di Dan Graham Rock Is My Religion. Avevo fatto una mostra Is It My Body? da Francesca Minini con Vanessa Beecroft | Roger Ballen | Dan Graham, e la tematica messa insieme da Antonio Grulli (il curatore) era proprio questa.
A proposito di zine e autoproduzioni: di recente sembra stia tornando alla ribalta una scena fotografica indipendente. Ci credi? Credi possa andare da qualche parte? Penso di averti rotto abbastanza, anche se avrei ancora un sacco di domande.
Penso che ci sia una sovraffollamento di carta nel mondo dei libri, ma è giusto che ci sia perché capisci se puoi andare avanti o no. Io penso che un libro sia giusto perché capisci come chiudere un lavoro anche se non lo stampi, ti serve comunque per chiudere i progetti, perciò fatelo! Poi, quello che ci metti dentro… madre de Dios.
Ti va di parlarci di qualcosa a gusto tuo? Che so: se ad esempio dico “pantofole” o “treni”… nel salutarti, sperando di beccarci quanto prima, vorrei farti un’ultima domanda: molta gente ti reputa un genio, molta gente dice che sei uno stronzo dall’incazzatura facile… tu quale ti senti più dei due? Avresti un messaggio per questa gente e per chi ci legge?
L’intervista è finita, grazie mille. Pantofole, dio mio, è la prima volta che me lo chiedono…. comunque attraverso loro mi sono prima nascosto dalla mia omosessualità e poi ci ho sculacciato uomini! Poi vi spiegherò perché, se ti presenti in pantofole come le mie a casa mia, in studio o al bar! Genio? Dio mio, state esagerando! Io comunque non sono stronzo per niente! Anzi, sono molto disponibile, venite e vedrete! Poi c’è da dire che sono in una fase della mia vita che è quella dei 50 anni e mi sento una vera checca, insomma mi dovrei tingere i capelli di mogano e mettere giacche un po’ da marinaio con maglie a righe blu, mocassino e per finire borsello, per circuire giovani maggiorenni ! Senza bisogno di fare niente, solo chiacchiere e al massimo qualche palpata – insomma, mi servirebbe anche una voce molto calda e gay. Sono in questa fase, prima della decadenza finale. Ciao!
Tutte le immagini, copertina esclusa, sono parte dell’opera Crack.
© Jacopo Benassi