Henri-René-Albert-Guy de Maupassant muore a Parigi il 6 luglio 1893. In realtà era morto almeno un anno e mezzo prima – quando, dopo aver provato a spararsi con una pistola scarica e a recidersi la gola con un rasoio, cede il passo alla follia – se non da più. Ogni tanto la fine, quando ritiene che sia il caso, si concede improbabili ritardi. Era impazzito definitivamente. Sifilide, pare. Forse ereditata dal padre, forse regalata da chissà chi. Come il fratello che dovette portare con l’inganno in manicomio nel 1889 per sentirsi urlare, nell’attimo della verità, “ma sei tu il pazzo di famiglia!” come una terribile preveggenza. A dir la verità questa è proprio una storia di grossolani presagi, se vogliamo.
Le biografie, che come accade per certi personaggi inevitabilmente passano nei libri e nei secoli con qualche macchia di leggenda, raccontano che anche l’anziana madre non se la passasse tanto bene, di testa, e che ogni tanto si dilettasse nel tentativo di togliersi la vita dal corpo.
Guy è distrutto, negli ultimi suoi anni di vita. Devastato dai dolori e dalla droga, imbottito di antipirina, tutto si sta disintegrando.
Scrive lettere angoscianti, pare quasi non resti altro che descrivere con disperazione l’avanzare delle armate spettrali di un nemico inesorabile e tremendo come fosse l’unica cosa rimasta da fare. Paragona la sua follia al latrare dei cani incatenati nel niente, inutile e spaventoso. Mente nelle lettere alla madre, crolla in quelle agli amici.
C’è un episodio meraviglioso che riassume quella disperazione.
È la notte che puoi sentire urlare i fantasmi peggio che mai. La vita è solo la trasposizione di un incubo, ormai. La notte tutto è più lieve, quindi la pazzia fa più rumore.
Si alza e prende il fucile. Esplode alcuni colpi, dalla finestra, nel buio dei campi. Immagina di sparare alla propria follia. Gli spettri schivano i proiettili e ridono come matti. Riecheggiano parole e racconti non scritti, riecheggiano echi di antiche novelle e fruscii di epoche che furono, il silenzio varrebbe più dell’oro, solo che non esiste, l’oro forse sì, ma non serve a niente.
C’è l’ultimo incontro con la madre, le ultime barriere che saltano, il fiume che esonda e in poco tempo è già straripato ovunque. La madre lo vedrà “sprofondare nella notte, esaltato, borbottante, folle…”.
Smette di vivere, si dirà. Lo vedo passare il confine distratto e leggero, senza accorgersene.
Poco dopo prova a tagliarsi la gola. Salvato e ricoverato, non si riprenderà più. Tradito dalla madre, tradito anche dalla morte, scrive Arnaldo Bressan in una meravigliosa prefazione per “L’inutile bellezza” pubblicato da Sansoni l’11 aprile 1967.
Era successo a Nietzsche, impazzito proprio nell’anno di grazia 1889, abbracciato a un cavallo maltrattato in piazza Carignano a Torino e si sospetta che sarà lo stesso male – o robina del genere, altri giurano che non esiste alcun male né il cavallo – era successo qualcosa di simile a Baudelaire che, caduto sugli scalini di una chiesa gotica che era andato a visitare e colpito da paralisi progressiva, spese gli ultimi fiati a urlare bestemmie contro le suore che gestivano l’ospedale. Correva l’anno 1866. La morte arrivò nell’agosto del 1867. Farfugliò che era molto indaffarata.
Cosa vuoi farci. Ma queste sono altre storie o forse sempre la solita, la storia del mondo che ogni tanto ripassa per rifare le stesse cose.
Tornando a Maupassant fra la data della sua nascita, nell’agosto del 1850 in un paese della Normandia, e quella della definitiva morte passano solo quarantatré densissimi anni e centinaia di racconti intrisi di un’ironia tragica e di una tragedia comica.
Un meraviglioso e spietato inventore di storie possibili. Un “operaio del reale”, sempre citando Bressan. Il decennio che va dal 1880, anno della morte del “maestro” Flaubert, all’implodere della fine trasuda racconti reali e assurdi al tempo stesso, familiari e improbabili. Tutto appare sotto una lente che lo rende grottesco e leggero. Sussurra quasi indolente frasi che fanno l’eco e l’effetto di un grido.
Talvolta traspare una nemmeno troppo celata misoginia.
Le donne sono quasi sempre presenti, quasi a voler esorcizzare un’ossessione.
Sono dolci complici o perverse ingannatrici, vittime ingenue di un mondo troppo cinico o carnefici consapevoli e fredde, sono esseri soavi o glaciali, ragazzine impaurite o decise da deflorare, figure spesso ambigue che danzano nel mondo e nei ricordi e che quasi sempre esistono grazie ai racconti che gli uomini evocano e che lo scrittore pare limitarsi a riportare con uno stile asciutto e preciso.
Come spesso accade in questi casi, spesso vengono salvate solo le prostitute, forse perché non hanno la possibilità di ingannare.
Sono quarantatré anni di vita, una quindicina di attività letteraria, che bastano a lasciare un’impronta unica e particolare nei secoli, se è vero che sono qui in un mattino di febbraio dal cielo bianchissimo, oggi avrebbe centosessantadue anni e spiccioli, e mi sono svegliato pensando a lui, chissà perché. Forse perché nella luce abbagliante del risveglio, quando il cielo dietro e sopra la Cupola pare uno sfondo neutro per fotografie senza misteri, il primo oggetto concreto che mi è apparso fra le mani è stato, chissà perché, una sua novella.
Parlavamo di profezie e presagi.
Fra i tanti racconti geniali, ve ne è uno che pare premonitore e, solo perché visto con il senno di poi, tremendo.
“Il letto 29” si intitola. Ci vuole un genio nel fondere comico e drammatico, nel raccontare una storia tragica lasciando in gola una gran voglia di ridere.
E’ la storia di un ufficiale ussaro, il capitano Epivent, vanitoso e narcisista, convinto che al mondo debbano esistere solo uomini come lui, abituato a disprezzare i borghesi e tutti gli altri militari di grado inferiore.
La sua fortuna con le donne è riconosciuta in tutto l’esercito.
Succede che nel 1868 il suo reggimento va di guarnigione nella città di Rousen e lì, neanche a dirlo, in poco tempo conquista il cuore e non solo della bella Irma, fra la compiacenza e l’invidia di soldati e ufficiali.
Diventano presto la coppia più nota del posto, finché non scoppia la guerra contro i prussiani e il capitano, dopo una notte di fuoco e lacrime, parte per il fronte. Lì compie il suo dovere. Uccide il nemico e viene decorato con la tanto agognata croce. Al ritorno Irma non si trova. Le dicerie si moltiplicano finché il capitano riceve una lettera dall’ospedale. Accorre al capezzale dell’amante, trovandola nella stanza adibita alle sifilitiche. Ella racconta di essere stata presa per forza da un prussiano e, contratta la malattia, invece di curarsi per tempo e salvarsi, di aver deciso di impestare mezzo esercito nemico.
Turbato prova a inventare scuse che non reggono e, scoperta la verità, gli altri ufficiali prendono la loro rivincita deridendolo pubblicamente.
Il capitano subisce l’onta e smette di rispondere alle richieste di visita della donna morente finché l’elemosiniere dell’ospedale non va a cercarlo personalmente e non può tirarsi indietro.
L’ultimo incontro è l’occasione per rinfacciarsi tutto. Lui l’accusa di averlo disonorato. Lei si tira su, a sedere nel letto e urla, davanti a tutta la stanza, che si merita l’appellativo di eroina molto più di lui quello di eroe. Lui ha ammazzato un nemico e gli rimane tutta la vita davanti. Lei ne ha ammazzati molti di più, se pur a colpi di vagina invece che di spada, e sta morendo per questo. Fuggendo dalla situazione diventata più che imbarazzante riecheggiano le ultime parole di Irma : “Più di te ne ho ammazzati, più di te, più di te…”
Il racconto tragicomico è del 1884. Lo scrittore gioca a prendere in giro la malattia che pochi anni dopo lo ucciderà. Non posso sapere, e forse nemmeno lui poteva, da quale intuizione nasce l’idea per scrivere il capolavoro. Un caso? Un’idea fra le tante? Un suggerimento del sangue? Una consapevolezza intima e bisbigliante che si faceva largo tentando di scherzare con un destino che non aveva nessuna intenzione di ridere? Forse egli lo sapeva già da anni, allora non rimaneva davvero che scherzarci. Da alcune sue lettere sembrerebbe quasi che nello stesso periodo avvenga la scoperta di essersi beccato la sifilide, per altri era ereditaria dal padre, e io non sono un medico.
Rimane il mistero, rimane la premonizione, rimane quel magnifico gioco che si compie quando letteratura e vita, finzione e realtà, finiscono per mischiarsi nello stesso personaggio. Come per il racconto ci sarebbe da ridere a crepapelle, non fosse che qualcuno ci ha lasciato la buccia, dopo mille sofferenze.
E ora finisco questo pensiero prolungato in onore di colui che ritengo uno dei grandi maestri di scrittura dell’ottocento, anche solo per la facilità di partorire storie quasi mai banali lasciando un gusto tutto suo.
Il cielo da bianchissimo, con l’avvento lento della sera d’inverno, si sta tingendo di un blu elettrico mescolato con il grigio.
Carico il fucile e attendo sul terrazzo. Potrebbero spuntare con il buio per venire a prendermi in giro.
Un’altra notte di guardia, nella speranza di far fuori almeno un paio di simpatici fantasmi.