I nostri occhi lo sanno, la conoscono bene. Caravaggio l’ha impressa nella mente di tutti noi. Quello sguardo, quel bell’orecchino di perla, la vecchia ancella che freme dalla voglia di prender la testa di Oloferne, quei fiotti di sangue. Ma chi era Giuditta? E chi era il malcapitato? Perché questo successo iconografico? Cerchiamo di far ordine.
La storia è tratta dal Libro di Giuditta, un testo di 16 capitoli contenuto nella Bibbia cristiana. È ambientata ai tempi di Nabucodonosor (605-562 a.C.), il re degli Assiri in quel tempo in guerra contro i Medi, un popolo dall’impero enorme tutto ad Oriente. Terminata vittoriosamente la prima campagna di guerra il grande re affidò al suo miglior generale, Oloferne, la missione d’Occidente: bisognava conquistare il popolo di Israele. Oloferne, non conoscendo queste genti, chiese al suo condottiero Achior informazioni, ma non fu felice della risposta. Achior mise in guarda il suo generale spiegandogli che quella era una missione impossibile: quel popolo era invincibile perché aveva un Dio a proteggerli, a patto che essi non trasgredissero le sue leggi.
Cito: «Se ci accorgiamo che c’è in mezzo a loro questo inciampo [il loro disobbedire al Dio, ndr], avanziamo e diamo loro battaglia. Se invece non c’è alcuna trasgressione nella loro gente, il mio signore passi oltre, perché il Signore, che è il loro Dio, non si faccia loro scudo e noi diveniamo oggetto di scherno davanti a tutta la terra.» (Gdt 5, 20-21).
Capito dunque? Achior aveva dubitato della vittoria di Oloferne, della sua grandezza! Fu presto punito, abbandonato ai nemici e legato giusto fuori le porte della città di Betulia. Gli israeliti lo ricoverarono, ma soprattutto si prepararono alla guerra. Dopo più di un mese sotto assedio, ridotti allo stremo, affamati e assetati, annullati dalle forze, stavano per cedere. Il loro capo, Ozia, riuscì tuttavia a convincerli a resistere, a continuar a combattere per almeno altri cinque giorni. Ed è proprio qui che entra in scena la più bella protagonista che la storia ricordi.
Si legge nel Libro: «Giuditta era rimasta nella sua casa in stato di vedovanza ed erano passati già tre anni e quattro mesi. Si era fatta preparare una tenda sul terrazzo della sua casa, si era cinta i fianchi di sacco e portava le vesti delle vedove. Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele. Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manàsse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché temeva molto Dio.» (8, 4-8).
Ricapitolando: bella, ricca, vedova e di indiscussa virtù.
Alla notizia della vicina resa del suo popolo, la donna convocò gli anziani e li rimproverò di scarsa fede; ottenuta la loro fiducia, si vestì in gran pompa e si presentò ad Oloferne con dei doni, accompagnata dalla fedele serva, fingendosi una traditrice del suo popolo. Il generale, debole come ogni uomo di fronte a cotanta bellezza, mise da parte l’ira e sciolse il suo animo più mansueto. Convinto di poterla sposare, di poterla avere e possedere, accettò i suoi doni e la invitò a banchetto. Quella stessa sera si ubriacò del peggior vino e cadde in un profondo sonno. Avvicinatasi alla colonna del letto, Giuditta afferrò la testa di lui per la chioma, pregò il Signore e con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Da questo atto eroico ottenne grandi onori e ricchezze, visse fino a 105 anni, libera e rispettata dalla gente e rifiutò sempre ogni proposta di nozze.
Questa arcaica eroina ha avuto un successo enorme, è stata fonte di ispirazione letteraria e artistica. Giuditta che pungola lo scarso coraggio degli uomini e si fa capo di una grande rivolta è di per sé una figura che inquieta gli animi di quei tempi per la sua indipendenza, determinazione, spietatezza, insomma, quella che mi piace chiamare una “super donna”. Non c’è dubbio che l’uccisione di Oloferne evochi la vendetta della donna contro l’uomo violento, violentatore. Ma come ha potuto una storia di seduzione e inganno avere la meglio nelle società patriarcali? Patriottismo e senso di appartenenza, sono queste le virtù che le hanno consentito la promozione.
È proprio in questa complessità, e di sicuro nell’eco della sua bellezza, che la storia dell’arte l’ha amata e immaginata in tutti i tempi, dal Medioevo fino quasi ai giorni nostri. C’è anche da dire che Giuditta ha messo d’accordo tutti gli artisti sulla scelta del momento da raffigurare, non c’è altra scena del libro rappresentata se non la scena clou: il taglio della testa. L’arma brandita varia dal coltellaccio di Mantegna alla sciabola corta di Donatello, alla spada del Caravaggio, fino al meno realistico spadone – ma siamo certi di una vicinanza d’animo con una storia di vendetta personale e soprusi – di Artemisia Gentileschi. È un po’ la versione femminile del giovane David contro Golia, e va di pari passo con Salomè e il Battista, donne dominatrici di teste di uomini che giacciono nel loro argentei piatti.
Vi scarrello di seguito le opere prima citate, alle quali sono particolarmente affezionata per un motivo o per l’altro.
Maestro della scultura rinascimentale, Donatello c’ha regalato questo bronzo monumentale custodito nella Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio a Firenze, ammirabile anche in copia fuori dallo stesso, un po’ a sorvegliare la piazza, vicina all’amico David (1457-’60 circa).
A metà tra la scultura e la pittura c’è Mantegna, che ci delizia col suo siparietto rosa salmone: Giuditta è di carnagione statuaria, come statuari sono gli eroi, e quel piedino lì in secondo piano sul letto è proprio da ammirare. Quanto son fortunati gli americani, è custodito alla National Gallery of Art di Washington (1495). Visto il coltellaccio?
Tanto è stato scritto sulla tela del Caravaggio, che presta al volto di Giuditta quello della sua bella Fillide, proprio lei, la donna per la quale ucciderà Ranuccio Tommasoni, e che gli costerà la fuga da Roma e l’inizio della sua fine… ma questa è un’altra storia! Qui c’è da godere sull’intensità del panneggio rosso, la complicità dell’ultimo sguardo tra carnefice e vittima, la sensualità di quella boccuccia schiusa che ha fatto parlar di sé dal ‘600 a data da destinarsi (1597).
Artemisia Gentileschi la pittura la conosceva bene. Figlia d’arte, è stata un pennello tra i più potenti in epoca barocca. L’artista ci dà due versioni del quadro, pressoché identiche se non per il colore della veste della protagonista, dove nella tela a Capodimonte è di un forte blu lapislazzulo, mentre in quella agli Uffizi si tinge di giallo dorato (1612 Napoli – 1620 ca. Firenze). La violenza qui fa da padrona.
E per ultima la mia preferita, la Giuditta di Cristofano Allori, maestro fiorentino. È custodita alla Galleria Palatina della sua città. Ebbe un successo incredibile già al suo tempo, si iniziò a copiarla per tutta la penisola, artisti da tutta Italia viaggiavano verso la Toscana per vederla, per imparare da lei. L’Allori si ritrae nella testa di Oloferne, mentre alla donna presta il volto della sua amante Mazzafirra, dal grazioso volto ovale. Anche se la protagonista principale di questo quadro è indubbiamente la veste: pomposa, pesante ed elegantissima, offre un esplicito omaggio alla fiorente industria tessile che fece la grande Fiorenza (1612).
In copertina: dettaglio di Francesco Furini, Giuditta e la fantesca nella tenda di Oloferne, Collezione CR Firenze, 1636.