«Quando abbiamo cominciato quello che facevamo era una novità, la vecchia musica non era molto popolare. Siamo stati uno dei primi gruppi a suonare il folk ucraino in questo modo. Adesso è più popolare e anche la world music è più conosciuta in Ucraina. Stiamo avendo successo perché è qualcosa di genuino – non come la musica pop, che è la stessa dappertutto. Questa musica è speciale e la gente è pronta ad ascoltarla.» (Iryna Kovalenko)

La musica dei DakhaBrakha è preziosa. È un tesoro raro che merita di essere custodito e diffuso, e lo è tanto per la sua bellezza intrinseca quanto per il suo non somigliare a nient’altro. La loro storia insolita, l’intreccio delle loro voci, i loro talenti fuori dal comune e la semplicità con cui si propongono al mondo sono alcuni degli elementi che li rendono unici: una band diversa da tutte le altre, e per questo ancora più preziosa.

Nei primi anni del secolo Olena Tsybulska, Iryna Kovalenko e Nina Garenetska stanno completando gli studi in etnomusicologia alla Shevchenko University di Kyiv, l’ateneo più importante d’Ucraina e uno dei più prestigiosi dell’ex blocco comunista. Cantano insieme sin dall’infanzia e hanno una conoscenza profonda della tradizione musicale ucraina. La loro strada incrocia quella di Vladislav Troitsky, impresario artistico e uomo di teatro dalle mille risorse che nel 1995 ha fondato il DAKH, centro per l’arte contemporanea con sede a Kyiv: è lui che incoraggia le ragazze ad avviare un progetto che dia seguito al loro corso di studi; è sempre lui a metterle in contatto con Marko Halanevych, laureato in filologia ucraina, attore e manutentore in un teatro della capitale diretto da Troitski.

Di fatto, la band nasce come stage crew per gli spettacoli del DAKH e poi diventa un progetto indipendente, legato però alla casa madre: durante la carriera non si sono mai separati da Troitsky, ancora oggi accreditato come project curator dei loro album. Al DAKH si sono costituite anche le Dakh Daughters, gruppo dark cabaret di cui fanno parte la stessa Garenetska e la moglie di Halanevych; Troitsky è, tra le altre cose, co-ideatore del GogolFest, il più grande festival di arte contemporanea del Paese – a cui i DakhaBrakha partecipano attivamente sin dalla prima edizione.

L’ascendenza teatrale ha lasciato tracce profonde in questo quartetto che somiglia poco all’idea di “band” che abbiamo in mente, anche dal punto di vista estetico. Sul palco indossano abiti insoliti e ricercati, originariamente pensati per gli spettacoli teatrali (le donne portano anche dei curiosi copricapo di pelliccia nera, sottili e allungati, che sono un po’ il simbolo del gruppo); suonano seduti uno accanto all’altra, disposti sempre nello stesso ordine. E come suonano?

Descrivere la loro musica non è semplice: la si potrebbe chiamare “folk sperimentale”? World fusion? O, più genericamente, world music? La prima e la seconda definizione sono forse fuorvianti, la terza non può che essere generica. Qualche critico ha azzardato la dicitura folk punk, per via del loro approccio minimalista agli strumenti (sono tutti autodidatti e prima della fondazione della band non avevano mai suonato alcuno strumento). Forse l’etichetta più precisa è quella riportata sul loro sito: ethnic chaos. I DakhaBrakha attingono al repertorio della musica popolare ucraina, ibridandolo con sonorità di mezzo mondo ed elevandolo ad una nuova dimensione in cui, letteralmente, tutto si fonde con tutto. I primi due dischi, Yahudky (UKRmusic, 2007) e Na mezhi (ArtPole, 2009), sembrano non appartenere né a questa terra né al nostro tempo.

Ritmiche incalzanti e primitive, riff ipnotici incisi dal violoncello affilato della Garenetska, l’eleganza pungente della fisarmonica di Halanevich e, soprattutto, quattro voci strabilianti: un ingranaggio perfetto ed elaborato, fatto di sovrapposizioni impossibili e continui cambi di registro. A tratti gli echi della steppa russa si fanno assordanti, ma dopo un istante si trasfigurano in suggestioni balcaniche, visioni sudamericane, tamburi dell’Africa nera e melodie stranianti dell’estremo Oriente. Danze nuziali e propiziatorie, riti di iniziazione, cortei di menadi e di vestali, sanguinose cerimonie funebri dell’età della pietra: tra i solchi di Yahudki e Na mezhi c’è tutto questo e molto di più.

Diversi brani, soprattutto nel disco d’esordio, sono fatti di sole percussioni e voci: altrove, il violoncello graffia e beccheggia distillando progressioni vorticose e atmosfere terrorizzanti (ad esempio quell’autentico maleficio che è Na Dobranich, con le voci di Nina, Iryna e Olena in odore di stregoneria). I testi (contenenti parole in dialetto o in ucraino antico, in alcuni casi di difficile comprensione anche per i madrelingua) vengono da canzoni della loro terra, vestite di nuovi arrangiamenti. Il risultato è un costante dialogo tra l’arcaico e il contemporaneo, libero da qualunque tentazione manieristica o di sperimentalismo fine a sé stesso: i DakhaBrakha sono colti, raffinati e al tempo stesso immediati, orecchiabili. E si lasciano ballare volentieri, con una spontaneità che sembra venire da un passato remoto, un fiume carsico di ricordi e usanze che riemerge nel nostro presente.

Nella prima fase della loro carriera emergono alcuni caratteri che resteranno costanti fino ad oggi. Innanzitutto, l’uso peculiare della strumentazione: scarna e (per ora) interamente acustica. I quattro sono polistrumentisti versatili ma tendono a lavorare per sottrazione, così che i brani si reggono su sul lavoro incessante delle voci e su pochi strumenti. Tra questi, il violoncello è non solo il più ricorrente, ma anche quello che definisce l’umore generale della loro musica. Nina Garenetska utilizza spesso delle frasi corte e molto semplici su cui viene costruita l’intera canzone; a volte le basta ripetere ad oltranza la stessa sequenza passando dal pizzicarla con le dita al suonarla con l’archetto per capovolgere il mood, trasformando un brano leggero e ritmato in una marcia solenne.

Il secondo pilastro su cui si regge la musica dei DakhaBrakha è Olena Tsybulska, motore ritmico del gruppo. Usa drum set ridottissimi (a volte composti solo da un timpano e un piatto) e, proprio come la Garenetska al violoncello, imbastisce strutture semplici e ripetitive al servizio di arrangiamenti vocali di grande complessità.

Marko Halanevych, nominalmente fisarmonicista, è in realtà un vero e proprio tuttofare che passa con disinvoltura da uno strumento all’altro: armonica a bocca, darbuka, cajón, scacciapensieri, didgeridoo, trombone. Il suo ruolo nella band è speculare a quello di Iryna Kovalenko, pianista che non di rado imbraccia percussioni di vario genere (buhay, congas, djembe, shaker); suona anche la fisarmonica e la zgaleyka, un flauto tradizionale dei popoli slavi.

In gran parte dei brani i DrakhaBrakha cantano insieme: il loro stile vocale deriva da quelli tradizionali ucraini, basati sulla sovrapposizione di più voci femminili. Capita spesso che le donne giochino sulla stessa melodia, variamente armonizzata, e che Halanevych vada per conto suo, sfoderando falsetti di vario genere oppure vestendo i panni del giullare, del crooner o del rapsodo; altre volte, il pezzo si sviluppa come un crescendo lento e regolare che poi viene spezzato dall’entrata in scena di un canto femminile prepotente, solitamente affidato a Garenetska. La voce della Kovalenko è forse la più duttile delle quattro, sempre a suo agio nell’interpretare le melodie tradizionali quanto quelle black di importazione; alla Tsybulska il compito di arrampicarsi sino ad altezze vertiginose, per raggiungere le note più acute.

Una proposta così radicale avrebbe poche possibilità di sfondare anche nel bacino di potenziale pubblico più vasto al mondo, cioè quello di lingua inglese; se per di più la lingua dei testi è l’ucraino, è difficile anche solo pensare di uscire dall’angusto recinto dell’est Europa: una zona del mondo che ha fame d’arte e di novità, ma dove la musica d’avanguardia finisce inevitabilmente in una nicchia. L’unica soluzione, in teoria, è cercare di farsi notare fuori dalla madrepatria.

«Pensavamo di dover tradurre le nostre canzoni, così che gli stranieri potessero apprezzarle meglio. Lo abbiamo fatto ma sembravano artificiali, non funzionavano» ha raccontato Halanevych. La prima parte della carriera dei DakhaBrakha è quella in cui quattro musicisti danno vita ad un progetto entusiasmante, seppur imprigionato in un ambito nazionale ristretto. La seconda è quella in cui riescono a compiere un piccolo miracolo: farsi ascoltare dall’Occidente senza rinunciare alla propria lingua, diventando così gli ambasciatori della cultura ucraina nel mondo.

Potete leggere qui la seconda parte dell’articolo!

Le immagini compaiono per gentile concessione della band. Foto di copertina: Olga Zakrevska. Foto dell’articolo: 1) Andriy Petryna 2) www.dakhabrakha.com.ua/ 3) Tetiana Vilchynska 4) Helen Bozhko

CONDIVIDI
Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO