Penso a Pavel Krusanov e mi vengono in mente la grammatica universale di Port Royal, Borges, Pavic, in altre parole, un sontuoso ballo della mente umana. Leggere la scrittura mentale significa riconoscere, subito o dopo vari tentativi, il proprio volto in un volto o in tutta una galleria dei volti, tracciati da una mano altrui, da una mente sconosciuta, per mezzo dei segni che all’inizio spaventano e dopo consolano. Il primo impatto di quel genere di testo è sempre straniante, ora da traduttrice non faccio altro che trasferire parola per parola scrupolosamente per non disperdere quella stranezza. Offro ai lettori un tormentato protocollo di questo ballo, passo per passo, mossa per mossa, e spero nel perdono, zoppico e balbetto nella mia sincerità. Per questo traduco anche i nomi di vie di San Pietroburgo, ovviamente dove posso, e potessi, li tradurrei tutti! Si tratta dei testi che non si avvicinano ma aspettano il nostro primo passo per mostrarci un volto impassibile e provocare i tentativi ripetuti. In loro abbondano i significanti desueti e i significati alterati dall’autore, i confini tra le parole sono fluttuanti, non è possibile anatomizzare quelli esseri senza danneggiare gravemente la loro sinergia. E non ce nessuna via di scampo. Il testo si traveste o si rigenera? Non ho risposta. Ma credo che il volto che alla fine smette di essere impassibile sia quello vero.

Conosco i testi di Pavel Krusanov da circa sette anni, ora li percepisco come testi vissuti da me in un passato che si articola in poche parole, in tante immagini della vasta gamma di grigio, in tanti suoni della tristezza ventennale. Il cronotopo dei racconti di Krusanov è pulsante, si restringe per poi dilatare grazie all’immortalità di coloro cui sagome cerca di tracciare il narratore, ed io riconobbi nella sua San Pietroburgo vista attraverso le palpebre chiuse qualcosa di infinitamente vero, da non poter facilmente codificare in parole. È un campo spazio-temporale popolato da entità che fanno parte della mia mitologia personale, cupa e solenne. Come se avessi conosciuto l’inanellatore degli angeli e il fiammeggiatore immortale proprio tra quelle “misere valli che continuano nei sogni” della mia propria vita.

In quel tempo lavoravo per la cattedra di teologia evangelica all’università che alloggiava nelle vecchie caserme prussiane in una città altezzosa e modesta che una volta si chiamava Memel. Dovevo fungere da tramite trasparente e privo di volontà propria tra un professore della lingua ebraica e un gruppo di studenti. Il professore americano parlava in inglese, citando Luther in tedesco e elogiando, essendo delle origini norvegesi, il valore inestimabile del Old Norsk per ogni linguista. Tra lui e gli studenti ero sospesa io, dolente, a districare i nodi di lingue, assai diverse tra di loro, che minacciavano di soffocare la mia mente, che allora operava quasi esclusivamente nella mia lingua madre. Ma in tutto questo frastuono dentro di me: dentro la mente o nella cassa toracica? rimaneva un qualcosa: un isolotto? Una stanza buia con poca luce e tanta pace? In quel santuario si rifugiava l’ebraico, ovvero, quel poco che riusciva a soffermarsi e non volava via subito senza voltarsi indietro. Se fosse una stanza con le pareti bianche e una finestra con le persiane semichiuse, immune dal caldo, un riparo dal demone meridiano? Così sarebbe popolata dai segni masoretici, soprattutto quelli muti: i dagesh, quello forte e quello lene… Un puntino che germoglia nella pancia delle lettere… Un segno che pur non dicendo nulla, decide.

Krusanov decise di siglare il suo protagonista-taumaturgo in un simile modo. Un’iniziale muta non presuppone un nome, il volto diventa facoltativo, Krusanov passa accanto ad un portatore dell’eternità. Io lo siglo con un’acca, H, un soffio del vento che passa, e dopo il quale dei fiori di campo non c’è traccia…

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