Anna Calvi (uscito il 17 gennaio 2011 per la Domino) può considerarsi senza remore l’album di debutto più interessante dell’anno; anzi, sbilanciandoci, ma nemmeno troppo, si potrebbe dire che era dalla fine degli anni ’90 che sulla scena non si affacciava un’artista femminile dotata di una dose di talento simile.
Scorrendo i credits dell’album salterà subito all’occhio che la ragazza, classe 1982, padre italiano, ma nata e cresciuta a Londra, ne ha da dare e parecchio: testi e musica, voce, backing vocals, chitarra, organo, pianoforte, basso, violino e arrangiamenti della strings section, oltre alla produzione (assieme a Rob Ellis, storico produttore di PJ Harvey, Marianne Faithfull, Scott Walker, etc. etc.), portano la sua firma. Il tutto sapientemente manipolato sotto l’egida di un’innumerevole congerie di influenze ed ispirazioni, da Edith Piaf (il primo singolo della Calvi è stato una cover di Jezebel, brano reso celebre dall’interpretazione del Passerotto) a Ravel, da David Bowie, Nick Cave, Jeff Buckley, Django Reinhardt, Jimi Hendrix e Scott Walker fino a Debussy e Messiaen.
Anna Calvi, registrato ai Black Box Studios nei pressi di Rennes, è un viaggio attraverso le zone più oscure dell’essere umano, una discesa agli inferi e ritorno, un’esplorazione tanto pericolosa quanto urgente «delle forze interiori che nella vita sono fuori dal nostro controllo e possono sopraffarci e di come gli si sopravvive. Esplora l’intimità, la passione e la solitudine. C’è una componente di oscurità nell’album, ma c’è anche un senso di speranza». Un concept album fortemente simbolico, denso di impliciti riferimenti letterari e di meno velati punti di contatto con la musica “colta” di Ravel, Debussy e Messiaen (soprattutto negli arpeggioni e nelle armonizzazioni dei bridge), nel quale forma e sostanza si fondono davvero a meraviglia. L’amalgama praticamente perfetta tra voce, chitarra – dalla quale Anna riesce a tirare fuori un suono quasi orchestrale – batteria (suonata in studio e live dall’eccellente Daniel Maiden-Wood), percussioni e armonium (affidati all’amica di vecchia data, e che musicista! Mally Harpaz) danno vita a 10 quadri sonori nei quali «la musica stessa racconta la storia quanto, se non più delle parole».
Rider to the sea è il pezzo di apertura, una vera e propria ouverture strumentale nella quale viene ripreso il crescendo di quella dell’opera di Ravel Daphnis et Chloè. Come ogni racconto di viaggio, metaforico e non, anche questo inizia con un riferimento al mare, il mare procelloso dipinto nel quadro che nel booklet campeggia sulla parete sopra l’artista addormentata e che ritroviamo nelle Attic Sessions (un live casalingo girato nella soffitta di casa Calvi). No more words, riff maliardo e vocalità delicata, è una preghiera all’amore assoluto, si, ma ancora carnale, è l’ultima parola sussurrata prima di mettersi per mare, non a caso, seguita da Desire, che con la sua ritmica decisa, un po’ sprengsteeniana, segna il vero e proprio inizio del viaggio. Amore e desiderio, nel senso più ampio del termine, sono le forze motrici che spingono Anna al largo nella sua esplorazione, nella sua ricerca (che poi, potere dell’arte, è anche la mia, la tua, la nostra). Susanne & I, tocca la tematica della morte, come ha spiegato l’artista stessa, infatti, parla di «addormentarsi, incontrare qualcuno nel tuo sogno e non svegliarsi più».
Un piccolo scarto dalla coesione generale del lavoro è rappresentato da First we kiss, che non si spiega se non come un arguto alleggerimento sonoro prima dell’intensità di The Devil, chiave di volta dell’intero album, dove si sente tutta l’influenza di Jeff Buckley. Pezzaccio dalle atmosfere, non a caso, desertiche (almeno all’inizio), in cui emergono le doti vocali e di strumentista di Anna, «un buon esempio di come volevo che la chitarra suonasse come un altro strumento. Volevo che nel bridge suonasse come i violini della colonna sonora di un film di Hitchcock, un crescendo fino all’esplosione».
Il viaggio di ritorno è caratterizzato da sonorità più luminose ed inizia paradossalmente con Blackout, in cui la confusione mentale che prelude il raggiungimento della consapevolezza è resa musicalmente con l’oscillazione tra due poli tonali dell’inizio, per poi assestarsi sulla tonalità del pezzo, che con quel suo preritornello tormentone è la hit che, volente o nolente, in un album ci vuole. In I’ll be your man delusione, rabbia e attesa infinita si esprimono nel riff di chitarra e nella ritmica sincopata del pezzo, che rendono tutta l’idea dell’aspettativa di qualcosa che non accade (bellissimo l’intro di chitarra). Morning light, ci accompagna delicatamente verso l’epilogo, tutti i nodi sono stati sciolti e il pezzo è un tripudio di luce quasi accecante, che si esprime massimamente nella timbrica dell’armonium di Mally. Love won’t be leaving, chiude l’album e lo riassume partendo da atmosfere poco rassicuranti, con un che di lynchano, per arrivare ad un’unica ma importante certezza «Love won’t be leaving, It won’t be gone until I find the way» sottolineata dallo splendido fraseggio degli archi.
Un lavoro interessante e complesso, dove nulla è lasciato al caso, pur senza riuscire cervellotico: «musica piena di intelligenza, poesia e passione», così l’ha definita Brian Eno, e se lo dice lui…