Molti media e osservatori interazionali sono rimasti stupiti per la vittoria di Robert Mugabe alle elezioni presidenziali dello scorso 31 luglio in Zimbabwe. L’ottantanovenne leader del Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (Zanu PF) ha conquistato 2.110.434 voti, ovvero il 61% delle preferenze già al primo turno, superando nettamente – di più un milione di voti – il principale sfidante Morgan Tsvangirai e il suo Movement for Democratic Change (Mdc).

Sia Tsvangirai e il suo partito, sia alcuni governi occidentali hanno sollevato dubbi sulla regolarità delle elezioni, in particolare lamentando trucchi nella composizione delle liste di iscrizione al voto – nelle quali, secondo l’opposizione, compaiono circa 100.000 ultracentenari e più di 800.000 nomi duplicati. Ad aumentare i dubbi di irregolarità ha concorso inoltre il fatto che Mugabe non ha permesso ad alcun osservatore occidentale di monitorare le elezioni. Nonostante ciò, però, gli osservatori dell’Unione Africana e della South African Development Community (Sadc) hanno assicurato che le elezioni si sono svolte in un in clima sorprendentemente “libero e pacifico”; caratteristica, quest’ultima, non certo scontata se si considerano le violenze che portarono alla morte di oltre 200 persone a seguito della vittoria del’Mdc nel 2008. Secondo la Sadc, lo scorso 31 luglio non ci furono brogli di gravità tale da invalidare le elezioni, e il fatto che i votanti siano stati il doppio delle ultime elezioni dovrebbe sgomberare ogni dubbio: Mugabe ha vinto legittimamente.

Molti dei motivi dell’ennesimo successo di Mugabe – il 22 agosto ha giurato per il suo settimo mandato da presidente – sono da ricercarsi nella deludente condotta dell’Mdc e del suo leader. Nel 2008 Tsvangirai fu costretto ad accettare un governo di unità nazionale per scongiurare ulteriori violenze; tuttavia è opinione diffusa che avrebbe potuto e dovuto agire diversamente per impedire a Mugabe di mantenere un potere pressoché assoluto sul paese. Inoltre, la credibilità di Tsvangirai ha subito duri colpi negli ultimi anni dopo la scoperta di un matrimonio segreto e di molte accuse di corruzione che ne hanno indebolito la posizione politica; lo slogan dell’Mdc per queste elezioni, Mugabe must go!, celava una totale mancanza di proposte, e la cosa non è sfuggita agli elettori.

C’è poi un altro elemento, spesso non colto dagli osservatori internazionali, essenziale per spiegare la vittoria di Mugabe: per quanto controverso egli possa essere – solo 20 anni sono passati dall’inizio della catastrofe economica dello Zimbabwe, e solo 10 dagli espropri delle terre dei “padroni bianchi” che seminarono violenza e morte anche fra tantissimi lavoratori neri – Mugabe rimane ancora l’eroe della lotta contro i colonizzatori bianchi, e i suoi discorsi contro il colonialismo, vecchio e nuovo, hanno presa sulla popolazione. In un paese in cui la situazione economica è talmente disastrosa che l’attuale PIL è del 20% inferiore a quello degli anni ’90, la maggioranza della popolazione è disillusa e sa di non avere scelte elettorali “vincenti”. In mancanza di candidati che possano portare la speranza di un futuro migliore, la scelta ricade sul leader che con discorsi populistici e nazionalistici – ad esempio le minacce di “indigenizzazione” delle imprese straniere – assicura al proprio popolo un futuro di miseria, ma lontano dalle grinfie degli occidentali.

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